Islam, un'altra via
In Puglia si farà il primo percorso di deradicalizzazione per un italiano convertito
Milano. Comincerà a Bari il primo percorso istituzionale del processo di deradicalizzazione, celebrato fuori dalle aule dei tribunali, nella speranza di contrastare l’aumento di improvvisati fondamentalisti con le armi del dialogo e il testo della Costituzione in mano. Si attende infatti a giorni la sentenza della Corte di appello che dovrebbe avviare il progetto di deradicalizzazione di un islamista italiano convertito, Muhammad Alfredo Santamato, considerato socialmente pericoloso e indagato per terrorismo. Si tratta di un protocollo che coinvolge la Digos, la Dda e il dipartimento di Giurisprudenza dell’università di Bari. La richiesta, avanzata nell’aprile scorso dal sostituto procuratore Carmelo Rizzo della direzione distrettuale antimafia di Bari, ha già ottenuto l’autorizzazione dalla sezione del tribunale che stabilisce le misure di prevenzione. Un provvedimento adottato perché, sebbene Santamato avesse manifestato la volontà di diventare martire e fosse in contatto con altri islamisti in Italia, non c’erano gli estremi per un processo penale. Perciò, grazie alle linee guida fornite alla procura dal docente di Diritto ecclesiastico Nicola Colaianni e da Laura Sabrina Martucci, ricercatrice in Diritto ecclesiastico comparato del dipartimento di Giurisprudenza dell’università di Bari, il camionista barese convertito, passato dalla passione per la Formula 1 e per le corse dei cavalli al fondamentalismo islamico, seguirà delle lezioni di diritto per riflettere sulle leggi costituzionali che prevedono il diritto di culto, ma non quello di adottare la shari’a né tanto meno di aspirare al jihad.
Martedì scorso alla Camera è stata finalmente approvata la proposta di legge che introduce misure per prevenire la radicalizzazione, e che istituisce il Crad, Centro nazionale sulla radicalizzazione, che adotterà interventi di monitoraggio nelle scuole e piani di recupero nelle carceri. Nel frattempo, però, ci stanno provando in molti, anche se solo informalmente, a innescare processi di deradicalizzazione. In altre regioni sono stati avviati esperimenti simili.
Uno di questi coinvolge un minorenne immigrato, che è stato affiancato al figlio di un imam, per tenerlo d’occhio e provare a distoglierlo dalle sue aspirazioni jihadiste. E c’è anche una donna italiana convertita al verbo salafita a cui si sono rivolti alcuni poliziotti della Digos per tentare di instaurare un dialogo, prima che possa oltrepassare il confine fra il fondamentalismo e il terrorismo. Certo, il caso di Alfredo Santamato è diverso perché si tratterebbe di un percorso istituzionale, come avviene (non sempre con esito positivo) nel resto dei paesi europei già da diversi anni. La richiesta della misura di deradicalizzazione, già concessa dal presidente della sezione del tribunale che si occupa delle misure di prevenzione, Francesca La Malfa, verrà gestita dai docenti di Diritto ecclesiastico, che saranno affiancati da un mediatore culturale. Il camionista convertito era stato già sottoposto alla sorveglianza speciale e privato della patente perché guidava un camion, un fattore non irrilevante per gli investigatori dell’antiterrorismo. Basterà? Ad ascoltare le altre esperienze avviate dall’intelligence o dalla Digos, che in passato si sono affidati anche al dialogo con radicalizzati, si tratta di una sfida difficile. Le risposte che ricevono sembrano essere state elaborate da un algoritmo: prescrizioni coraniche tratte da hadith del profeta prese a caso sul web. Il caso di Bari, ancora una volta, è diverso: Santamato dovrà confrontarsi con un team istituzionale che cercherà di offrirgli una sorta di rieducazione laica, ispirata ai principi costituzionali. Il tentativo precedente di deradicalizzazzione, avvenuto sempre a Bari nel febbraio scorso, riguardava un panettiere albanese, Edmond Ahmetaj, ma si è rivelato impraticabile. Anche lui considerato socialmente pericoloso, su Facebook aveva condiviso immagini, video di azioni terroristiche e scene di esecuzione di prigionieri. La procura aveva chiesto che frequentasse volontariamente la moschea e fosse aiutato dai suoi fratelli di fede a leggere e a interpretare in maniera diversa i versetti del Corano. Richiesta che non era stata accettata dal tribunale del riesame, perché l’imposizione richiesta invece dalla procura generale di frequentare la comunità islamica e di seguire gli insegnamenti di un imam violerebbe la libertà religiosa. E così ora si prova a ricorrere al protocollo che prevede il recupero socio-giuridico-culturale di soggetti che non hanno letto il Corano, non vanno in moschea e si creano un verbo fondamentalista su misura per sottrarsi alla complessità dell’esistenza, affidandosi a dei paletti dogmatici che i docenti di Diritto, una volta confermata la sentenza di primo grado sulle misure di prevenzione, proveranno a smontare.