Il Lago di Bracciano in secca (foto LaPresse)

Roma a secco. Ma due anni fa abbiamo sprecato la piena di Bracciano

Maurizio Stefanini

Quel lago ora indicato all'origine della crisi idrica, appena due anni fa aveva raggiunto un livello talmente record da far decidere di versare in mare acqua dolce che in seguito avrebbe potuto rivelarsi preziosa

Roma a secco? Un aspetto chiaramente paradossale di questo allarme è che si riferisce a una città che attorno ai 2000 anni fa costruì un sistema di acquedotti divenuto un modello per l'intero pianeta, le cui fontane e fontanelle sono famose in tutto il mondo, e che soprattutto può appoggiarsi a quel bacino idrografico e imbrifero di Rieti che è il più importante d'Europa. Ma un altro paradosso è che in realtà quel Lago di Bracciano ora indicato all'origine della crisi appena due anni fa aveva raggiunto un livello talmente record, da far decidere di versare in mare acqua dolce che in seguito avrebbe potuto rivelarsi preziosa.

     

Per comprendere, bisogna ricordare che sono 10.000 in tutto i chilometri di rete idrica da cui ogni anno passa il mezzo miliardo di metri cubi di acqua necessario alle esigenze vitali di 3,7 milioni di persone. L'85 per cento di quest'acqua viene da sorgenti: un'altra caratteristiche che distingue Roma da altre metropoli tipo Londra o Parigi, costrette invece a servirsi di acqua di fiume depurata. La storia stessa dell'urbanistica romana ruota attorno al drammatico evento del febbraio del 537, quando per costringere alla resa i bizantini del generale Belisario assediati nella città gli ostrogoti tagliarono i 14 acquedotti che la rifornivano. I bizantini alla fine vinsero, ma gran parte dei romani furono costretti ad abbandonare la città, mentre i pochi che restarono dovettero spostarsi dai Colli del popolamento classico al Campo Marzio. Dove si poteva attingere l'acqua del Tevere, e dove si stende infatti la Roma medioevale.

     

Un altro 12 per cento dell'acqua di Roma viene da pozzi, e il solo residuo 3 per cento da fonti superficiali: cioè, appunto, il Lago di Bracciano. Agli 11 acquedotti tuttora in funzione risalenti all'Antichità, e che furono realizzati tra il 312 a.C. e il 226 d.C., se ne aggiungono uno del XVI secolo, uno del XVII, uno del XIX e due del XX. Tra questi ultimi c'è in particolare quello del Peschiera-Capore, che attinge alle due omonime sorgenti del Reatino, miscelate tra di loro nel centro idrico di Salisano, pure nel Reatino. Progettato nel 1908, iniziato nel 1937, in funzione dal 1949 e terminato nel 1980, porta 14.000 litri di acqua al secondo per 130 km, di cui al 90 per cento sotto terra. Insomma, per il Peschiera-Capore passa il 70 per cento dell'acqua consumata a Roma, e non solo. Come a Roma è un vecchio scherzo quello di offrire da bere “da Nasone” per poi portare a una fontanella, così nel Reatino un “Peschiera liscio” ordinato a un bar è semplicemente un bicchiere d'acqua. 

    

Insomma, contrariamente all'immagine che sembrano dare ora i media, in realtà non  viene dal Lago di Bracciano se non una quantità minima dell'acqua che viene usata dai Romani. Però il Lago di Bracciano è una fonte di risorse strategiche e di compenso stagionale da cui Acea può prelevare 1.100 litri al secondo medi, fino a un massimo di 5.000 litri al secondo in condizioni eccezionali. Insomma, da lì si attinge quando d'estate la richiesta aumenta: una goccia, ma quella proverbiale che può far traboccare il vaso, oppure lasciarlo all'asciutto. Un'altra immagine che adesso sta passando sui media è quella di un Lago di Bracciano condannato a prosciugarsi dal riscaldamento globale, tant'è che il governatore Zingaretti ha tirato in ballo perfino Donald Trump e la denuncia dell'Accordo di Parigi. 

   

Ma, appunto, la realtà è che appena nel marzo del 2015 un inverno particolarmente piovoso – 1500 millimetri di acqua contro i 900 della media – aveva portato il Lago di Bracciano a 20 centimetri oltre quello zero altimetrico a cui l'acqua inizia a sversare nell'emissario Arrone. Non avrebbe dovuto esserci niente di clamoroso, ma nei 12 anni precedenti il livello si era talmente abbassato, che con la tipica mentalità allarmista infatti all'origine anche delle polemiche di questi giorni si ebbe paura di un'inondazione imminente. Cittadini e imprenditori spaventati imposero dunque agli amministratori locali di aprire le paratoie dell'Arrone, e vari milioni di metri cubi di acqua dolce potabile furono buttati in mare. Proprio quella “goccia” che oggi permetterebbe di evitare il razionamento.

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