Elogio del sindaco di Portofino che non vuole i migranti, ma accoglie i ricchi
Il gran rifiuto del primo cittadino della perla del Levante è così autoesplicativo da mettere in berlina tutti i conteggi della prefettura sulla base delle tabelle ministeriali
Se la matematica fosse una visione, e quando si applica agli umani in effetti lo è, di solito con effetto grottesco, in base all’accordo stipulato mesi fa tra il ministero dell’Interno i comuni italiani (non tutti, è su base volontaria) e successive modifiche (ci saranno state delle modifiche, siatene certi) che prevede la ripartizione di 2,5 migranti (due uomini e una gamba? Ecco l’effetto grottesco) ogni mille abitanti, nel comune di Portofino, che fa 420 residenti, dovrebbe sbarcare un migrante e un pezzetto. Una mano, forse. Se la matematica diventasse una visione, avrebbe la forza di farcelo comparire, questo migrante e un pezzetto solitario, sperduto con le infradito e i calzoncini davanti all’arco blu e smeraldo di uno dei jetset marini più belli ed esclusivi del mondo. Mentre lo guardano dalla Piazzetta e dal Caffè Excelsior, o lo sbirciano da una barca (più si è ricchi e più la parola è “barca”), questo strano esemplare di displaced people. Lui si guarderebbe attorno, e penserebbe nel suo idioma a noi ignoto: ma che ci faccio qui?, come un Chatwin involontario in capo al mondo. E soprattutto: ma il proprietario della mano, e tutti gli altri compagni di barcone (più è scassata, più la barca è un accrescitivo), dove li hanno messi?
Se la matematica non diventasse un’opinione, quando deve far quadrare i conti della politica, bisognerebbe domandarsi che vantaggio possa ricavare la prefettura di Genova, che pure deve piazzare da qualche parte la sua quota di 700 richiedenti asilo, a metterne uno sperduto come un’oliva in un Martini, a Portofino. Unendo l’inutile al fuori posto.
Così c’è da schierarsi con il sindaco di Portofino, Matteo Viacava, che è del centrodestra e si rifiuta di accogliere il suo migrante e un pezzo. Come del resto già fece il sindaco di Capalbio – ma Capalbio, solo per il nome, faceva più ridere – e come pur stanno facendo altri suoi colleghi del Levante e del Ponente. A onor del vero, non è che ci sia da elogiarlo per le motivazioni addotte: “Il nostro è un centro turistico importantissimo e alloggi liberi non ne abbiamo”, ha detto. Forse gli bastava spiegare che gli alloggi, lì, viaggiano sopra i diecimila al metro e al bar per un “giancu de Purtufin” ti sfilano venti euro. E forse pure il proprietario del Puny poteva consultare il suo pr prima di dichiarare “qui siamo già stretti noi”. Ma comunicazione a parte, il gran rifiuto del primo cittadino della perla del Levante è così autoesplicativo da mettere in berlina tutti i conteggi della prefettura sulla base delle tabelle ministeriali e sottesa logica burocratico-emergenziale. Ma insomma, perché mai un gioiellino come Portofino, con tutte quelle finestre che ridono e le ville nel verde che si specchiano nel blu, con quel viavai di nomi che sembrano un’eterna Belle Époque, dovrebbe badare ai Sis, o aderire alla Sprar? Portofino è business e immagine nel paese che ha bisogno come il pane di preservare e casomai incrementare un’immagine turistica non stracciona e caciarona. Perché dovrebbe mettere lì, come un faro sul porticciolo, il suo migrante statisticamente ripartito? A ognuno il suo lavoro. Roma è più grande, ha i suoi problemi e ha anche i suoi migranti. Ma a nessuno, nemmeno ai luminari dell’attuale giunta, verrebbe in mente di piantare le tende a Via Condotti, o in cima al Pincio. Si lavora per cooperazione, ma anche specializzazione. Portofino non è Cogoledo, forse c’è più spazio a Sarzana.
Dirà subito, qualche vegano ambientalista o umanitario, che pure Lampedusa è bellissima, un mare altrettanto blu. E un giorno di certo gli yacht attraccheranno al largo per fare diving etnografico tra i relitti e poi sbarcare ricchi avventori in qualche hotel a quindici stelle. Ma ora no, ora non è così. La specializzazione non è eterna. Ma per il momento, a Portofino accolgono i ricchi.