Visitare Venezia e accorgersi che l'allarme sulla città invivibile è fortemente esagerato
Per come l’ho vista in due mattinate di inesauribile bellezza, è un posto normale, ingombrato da qualche trolley d’avanzo nelle ore di punta, ma godibile
Per come l’ho vista in due mattinate di inesauribile bellezza, con visite a San Marco, la Cattedrale, e a Ca’ Pesaro, mostra di ritratti di Hockney e repertorio museale di arte moderna, infine derrate di Tintoretto e Tiziano e Bellini e Palma il Vecchio e La Tempesta di Giorgione e i Trittici di Bosch alle Gallerie dell’Accademia, per come ho girato con i batei o vaporini, passeggiato, sostato nei caffè di campiello o all’Harry’s Bar, tragitto lungo dal Lido e ritorno, ed erano i due ultimi giorni di agosto, Venezia è una città normale e normalmente frequentata dai turisti mordi e fuggi, ingombrata da qualche trolley d’avanzo nelle ore di punta ma niente d’altro, e a tratti perfino solitaria, e godibile tre, quattro volte più dell’amata e congestionata Firenze delle file agli Uffizi e del piccolo centro storico soffocato dai viandanti e assediato dal traffico viario, e in certo senso più della vasta e mobile città di Parigi.
Eppure Venezia è considerata, non soltanto dai dandy che la frequentano da cinquant’anni, e si può capire in questo caso lo smarrimento snob di non averla tutta e solo per sé, ma anche dalla grande stampa internazionale, dalla chiacchiera continua, dai comitati per il numero chiuso, tasse e altre proibizioni un fenomeno mostruoso di affollamento senza misura alcuna. Certo nei luoghi deputati del turismo di massa, come appunto San Marco, puoi avere folle ingenti, devo credere a quanto leggo e a quanto si dice e svalutare quel che vedo, e pasti malamente deglutiti seduti sui sagrati delle chiese, e qualche eccesso nell’abbigliamento e nel comportamento, devo credere alla leggenda contemporanea di Venezia che affonda sotto il basto asinino di molti milioni di visitatori attoniti. Ma non li ho visti, ed era agosto, ed era appena ieri e l’altro ieri. Ho visto un normale flusso turistico piuttosto bene organizzato, un flusso appunto e non un ingorgo infernale.
Per cominciare bisogna scegliere le ore giuste. Alle otto e mezzo di mercoledì ero al Florian di piazza San Marco, ancora chiuso, e fino alle nove la piazza era deserta e gli incongrui cavalli e le colonne e la facciata bizantina della chiesa e i grifoni che afferrano Alessandro Magno, le cui spoglie forse riposano in Cattedrale al posto delle reliquie del Santo come mi ha raccontato Francesco Cataluccio che si accompagnava a me, ondeggiavano alla luce discosta lagunare con un effetto di tutto a posto e tutto a mia completa disposizione. Alle nove, prima dell’apertura ai turisti, c’era la messa e, con osservante rispetto del dovere di seguire almeno in parte la cerimonia liturgica, era possibile guardarsi praticamente in solitaria mosaici e Cristo pantocratore, iconostasi e accatastamenti secolari di opere varie sottratte dai mercanti veneziani al bazar delle bellezze di Costantinopoli, una sbirciatina alla Cappella Zen e via di nuovo sulla piazza mentre una folla per la verità ordinata e non numerosa di visitatori alle nove e quaranta cominciava a infiltrarsi con il nasino all’insù attratta dall’oro e dal luccichio delle volte nella struttura a croce greca. Ho avuto San Marco e il suo porfido e le sue stelle e il suo Leone tutto per me, e questo è un fatto. Esserci alle nove non era poi tutto questo sforzo, è perfino un suggerimento contenuto nelle guide. La mezz’ora del caffè finalmente aperto in piazza, con coppie cinesi che festeggiavano fotografandosi “il matrimonio a Venezia”, che ha sostituito la morte manniana, e non sarà poi una tragedia, fu una mezz’ora di delicate nuove luci tra Procuratie vecchie e nuove, e c’era poca gente, diciamolo.
Stessa esperienza a Ca’ Pesaro, i ritratti ironici e pop di Hockney scorrevano tutti per me e per pochi altri, e così la collezione Carraro e i vetri di Zecchin o Carlo Scarpa o le statue di Rodin e di Arturo Martini e Medardo Rosso. A Parigi c’è sempre ressa, a Firenze sempre fila, a Venezia Dorsoduro – nolite me tangere e credetemi sulla parola – c’era pochissima gente. I vaporini filano che è una meraviglia, passano ogni dodici minuti, e non sono così attufati di turisti con i loro baracconi come si dice.
Il giorno dopo all’Accademia stessa esperienza. Il bar del campiello aveva alle dieci tre o quattro tavolini disponibili all’ombra, l’ingresso alle Gallerie senza fila alcuna, il pubblico all’interno scarso o appena normale per un luogo tanto appetibile da occhi interessati ai dipinti, da Carpaccio a Tiepolo, appesi tra soffitti e pavimenti da urlo di meraviglia. E poi, oooohhh, la Tempesta di Giorgione, come sempre un capolavoro come pochi misterioso e seducente, l’abbiamo guardata a lungo in quattro, poi in tre, poi da solo. Da solo davanti alla Gioconda o alle Meninas non mi sono mai trovato in vita mia. Miracoli di Venezia, la città che affonda sotto il peso del turismo.
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