E' morto Samuel I. Newhouse, il re del patinato

Il rivoluzionario di Condé Nast che amava le riviste più degli oggetti

Michele Masneri

Si chiamava Samuel I. Newhouse, detto “Si”, e per di più junior, nella complicata onomastica delle classi alte americane. Era il proprietario di Condé Nast, casa editrice di Vogue, l’ultimo tycoon rimasto di quel nostalgico mondo di manufatti novecenteschi chiamati riviste. E’ morto domenica scorsa, a 89 anni. Era figlio di un Samuel I. evidentemente senior, ebreo russo newyorchese che aveva fatto un po’ di soldi con la professione di avvocato, e li aveva investiti tutti in un traballante quotidiano locale, The Staten Island Advance. Da lì aveva messo su una serie di quotidiani famosi per la bruttezza e per fare profitti (The Long Island Daily Press, The Star-Ledger e molti altri). Nel 1959, come in un racconto di Philip Roth, per far contenta la moglie aspirazionale, le aveva comprato non un abbonamento alla sua rivista preferita ma l’intera casa editrice di Vogue, la Condé Nast appunto.

 

Dal matrimonio nascono un appassionato di mensili e uno di quotidiani. Alla morte del senior, infatti, i due fratelli SI Junior e Donald si dividono l’impero: al primo le riviste, a Donald i quotidiani e le tv (sono proprietari, tra l’altro, di Discovery Channel). Era naturalmente una scelta residuale, si è sempre saputo che “il modo più facile per diventare milionari è essere miliardari e poi comprare una squadra di calcio, o una rivista”, secondo una vecchia massima, e Si era un bamboccione, aveva abbandonato l’università e bivaccava sui divani tra i magazine di famiglia. Ma poi inocula il virus della carta patinata, con l’appoggio di Alexander Liberman, direttore editoriale della Condé Nast, emigrato russo, una specie di Vittorio Valletta che guida e ispira il giovane Newhouse nella sua educazione editoriale. L’apprendista diventa “l’ultimo dei grandi visionari dell’editoria”, ha scritto Graydon Carter, direttore uscente del Vanity Fair americano, anche lui abbastanza una leggenda. “Amava le riviste, proprio come oggetti. Ogni settimana aveva tutti gli esemplari in uscita ordinati sulla sua scrivania, e contava le pagine di pubblicità una a una”. 

 

Sostituiva anche i direttori uno a uno, prendendoli giovanissimi. Nel 1962 introna Diana Vreeland a Vogue (poi dopo anni sostituita da Anna Wintour). Inocula Tina Brown a Vanity Fair, un vecchio mensile che era nato come Dress and Vanity Fair, aveva smesso le pubblicazioni nel ’36 e che viene tirato fuori dalla naftalina con una formula allora eversiva, il gossip-grandi firme insieme all’inchiesta seria e al faccione della celebrità in copertina fotografato dai migliori fotografi (Annie Leibowitz, Herb Ritts, Mario Testino). Aggiunge o fonda o ripristina riviste fondamentali: Allure, Gourmet, Condé Nast Traveler, Architectural Digest (AD), Details. E GQ, che prima si chiamava Gentleman’s Quarterly. E il New Yorker, con le sue vignette intelligenti e gli sfiancanti articoli che tutti giurano di leggere, comprato nel 1985.

 

Compra anche case editrici (Random House, la più grande degli Stati Uniti, nel 1978). Newhouse non ha probabilmente mai fatto grandi soldi ma non si saprà mai, perché Condé Nast non è quotata e non è tenuta a rilasciare i bilanci. “Credo nello spreco. Lo spreco è una grande fonte di ispirazione”, aveva detto del resto il suo mentore Liberman. E gli stipendi e le note spese dei tempi d’oro sono deliziose favole. Viaggi in Concorde, party con elefanti, e uno dei pochi film dedicati a un direttore di giornale, “Il diavolo veste Prada”.

 

Adesso, dopo la dipartita padronale, non si sa cosa succederà, non si prevedono scossoni perché già da due anni Newhouse era presidente solo emerito. L’ultima sua decisione, lo spostamento degli uffici newyorchesi da Midtown Manhattan al nuovo palazzone acuminato di One World Trade. A reggere l’impero è una triade composta dagli eredi Steven e Jonathan Newhouse e dal ceo di Condé Nast Robert A. Sauerberg (junior anche lui). Mentre il fratello Donald continua a comandare sui quotidiani e le tv. Secondo il New York Times, l’azienda dovrebbe registrare un calo di fatturato di 100 milioni di dollari quest’anno, e ha venduto partecipazioni importanti.

 

Newhouse junior era comunque poco invadente, piangono i suoi direttori ora a reti unificate (ma si dice di tutti i grandi editori, nessuno che dica mai “veniva tutti i giorni in redazione, che palle”); grande collezionista di libri e di quadri con la moglie storica dell’architettura Vicky. Collezionista un poco sbadato, un giorno a casa di David Geffen, plenipotenziario cinematografaro hollywoodiano, ammirò un suo Pollock appeso alla parete. “E dove l’hai comprato?”, chiese al tycoon, che rispose: “Ma me l’hai venduto tu!”. Uno dei due l’aveva appeso nel modo sbagliato, non si seppe mai chi. Modesto, nonostante le ricchezze, non amava apparire e dunque non veniva riconosciuto; un giorno prese un taxi col direttore di Vanity Fair, entrambi si scoprirono senza contanti; “vado su un attimo a prenderli”, ricorda Graydon Carter. “Sì, ma il piccoletto rimane qui”, disse il tassista previdente; dove il piccoletto era naturalmente l’uomo-Vogue.

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