Ferdinando Imposimato, una vita tra realtà processuali e "verità" nascoste
E' stato un protagonista di vicende giudiziarie cruciali per il nostro paese, dall’inchiesta e il primo processo per l’assassinio di Aldo Moro a quella per l’attentato a Giovanni Paolo II in piazza San Pietro
Roma. Ferdinando Imposimato, scomparso a Roma all’età di 81 anni, è stato un protagonista di vicende giudiziarie cruciali per il nostro paese, dall’inchiesta e il primo processo per l’assassinio di Aldo Moro (1978) a quella per l’attentato a Giovanni Paolo II in piazza San Pietro (1981) e gli omicidi di Vittorio Bachelet (1980) e dei giudici Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione (1978). Ha subito anche una terribile tragedia famigliare, quando suo fratello Franco fu ucciso in un agguato camorrista probabilmente ordito come vendetta trasversale per le sue inchieste. Ha sempre avuto un interesse particolarmente acuto per le connessioni internazionali dei fenomeni criminali e anche una visione premonitrice del terrorismo internazionale di matrice islamica. Già nel 2001 scriveva che “l’islamismo sta dilagando in tutto il mondo come il nuovo alfiere della libertà e della giustizia dei popoli oppressi. I segnali sono numerosi e non si possono ignorare”.
La sua sete di verità lo ha portato a non accontentarsi delle verità processuali, nemmeno da quelle che derivavano dai procedimenti di cui era stato egli stesso protagonista. Sul caso Moro ha scritto un libro, “Doveva morire. Chi ha ucciso Aldo Moro”, denso di suggestioni, come quello dedicato a “La repubblica delle stragi impunite”, in cui istituisce un nesso logico più o meno credibile per collegare tra loro diverse vicende tragiche, da Portella della Ginestra fino a via D’Amelio. La trama delle sue ricostruzioni si riferisce a operazioni condotte dai servizi segreti di vari paesi, ipotizzate con un acume e una fantasia degne di un grande romanziere. Più che di risposte, che non hanno il sostegno di prove verificate, si tratta di domande che cercano di scrutare nelle molte zone buie della nostra storia.
Così come è stato rigoroso nelle sue azioni da magistrato, quando si muoveva solo sulla base di prove e di riscontri, è stato invece aperto fino ai limiti della fantasia (adesso diremmo ai limiti della post verità) a ipotesi anche discutibili nella sua attività di pubblicista. In qualche caso, come nella sua accalorata difesa del movimento che si batte contro le vaccinazioni obbligatorie, si è spinto su terreni decisamente scivolosi. Tuttavia la sua ansia di verità più complete e più appaganti di quelle raggiunte dalla indagini ufficiali era animata da una veritiera angoscia per l’insufficienza delle spiegazioni, particolarmente sentita da chi di quella ricerca della verità era stato protagonista e che quindi ne sentiva l’incompiutezza come una sofferenza personale. In questa sincerità di fondo, in questa ricerca anche dolorosa di altre verità sta la differenza tra l’impegno di Imposimato e le fanfaluche di altri inventori di complotti immaginari, alcuni dei quali hanno addirittura accarezzato l’ipotesi di un suo impegno in politica. Si tratta di una differenza morale e civile importante, che va riconosciuta anche da chi non condivide le piste da lui in qualche modo individuate.
Personalità come quella di Imposimato sono destinate a rimanere controverse, e questa d’altra parte era stata una sua scelta, che si è espressa nelle incursioni in territori insidiosi. Sarebbe ipocrita e in fondo irrispettoso non mettere in luce il carattere anche provocatorio della sua produzione letteraria, come non riconoscere l’onestà di fondo che lo ha animato nella sua ricerca della “sua” verità.
Sergio Soave
generazione ansiosa