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La baby gang non è l'evoluzione dello scugnizzo, ma la degenerazione bastarda

Umberto Minopoli

Da Dickens a Troppo napoletano di Gianluca Ansanelli. Le radici di un fenomeno avulso, nuovo, mostruoso, orripilante, eccezionale

No. La baby gang non è l’evoluzione dello scugnizzo napoletano. Ne è la degenerazione bastarda: un fenomeno avulso, nuovo, mostruoso, orripilante, eccezionale. La letteratura europea dell’800 ci ha regalato grandi affreschi del tema dell’infanzia abbandonata, della mendicità dei piccoli, sempre a cavallo tra la perdizione dello spleen e la salvezza della redenzione. Pensiamo ai “figli della colpa” dei romanzi di Dickens, ai “senza famiglia” di Malot, ai piccoli del “popolo degli abissi” di Jack London. E’ un grande stream letterario, sociologico, antropologico che, nel riscatto dell’infanzia in bilico tra malavita e redenzione, accompagna la narrazione dell’epopea dell’industrializzazione. Sono, quasi sempre, piccoli eroi i protagonisti trovatelli di questo grande stream letterario, simbolo dell’innocenza sporcata degli slums, infimi e anneriti, della grande città che si accosta all’affrancamento della modernizzazione, attraverso il riscatto dell’infanzia abbandonata.

 

A Napoli, con sorpresa, questa narrazione della centralità dell’infanzia abbandonata arriverà singolarmente tardi. Gli studi etimologici sulla figura dello scugnizzo napoletano ne fissano l’atto di nascita, in ritardo rispetto alla letteratura sull’infanzia degli spleen europei, negli scritti di Ferdinando Russo, giornalista e poeta dialettale che, in sonetti e reportage del 1895, segna la descrizione di scuola dello scugnizzo:“il monello abbandonato dai suoi stessi genitori, figlio di vizio, crudeltà e miseria, sempre in balia del caso”. Da allora, la figura dello scugnizzo, il modello del “monello di strada” in bilico tra camorra e riscatto, troneggia nella grande letteratura dialettale, della canzone napoletana, della sociologia e dell’antropologia della grande capitale. Fino a diventare, nel secondo 900, l’icona rappresentativa della letteratura neorealista, del grande cinema di Rossellini e De Sica. Ma il motivo è sempre lo stesso di Dickens: lo sguardo carico di simpatia di una borghesia compassionevole verso il bimbo povero e “senza odore”, per dirla con Suskind, simbolo di una città in bilico tra perdizione e riscatto, e di un’umanità eroica che vive, pericolosamente, sul cleavage tra maledizione e riscatto.

 

L’infanzia napoletana è l’icona di questa narrazione che emoziona nel cinema, nella letteratura, nel teatro napoletano, nella musica. Lo scugnizzo napoletano è più interessante, complesso, attraente dei “piccoli protagonisti” di Dickens. E’ una figura che assurge a eroe di un popolo descritto come sorprendemente intelligente, plasmato nell’arte di inventare soluzioni di sopravvivenza, gioioso e solare anche nella povertà, scaltro, adattivo, brillante e sagace, abile e ingegnoso quasi per imprinting, genetico e antropologico, frutto di storia antica e consolidata.

 

Figli di camorra, anzi “piccola camorra” essi stessi, ammoniva Ferdinando Russo. Senza scuola. E avviati “spensieratamente per la strada delle carceri e del domicilio coatto”. Piccoli delinquenti, perennemente, in strada, autori di violenza fatta di sberleffo, raggiro, bullismo verso il “forestiero”, il povero di spirito, il benestante esibizionista, il sempliciotto che fa sfoggio di dabbenaggine.

 

Ma con un tratto dominante.

 

Lo scugnizzo, anche nei tratti che lo accostano al malavitoso in erba, a figura interna del mondo della camorra delle origini, evidenzia, chiaramente, il profilo del “bimbo adulto”, che malavita per l’esigenza di arrangiarsi troppo in fretta, di crescere in barba all’anagrafe reale, di imparare anzitempo la poliformia del destreggiarsi, del cavarsela da solo, dell’ingegnarsi. Qualcosa che si fa, nei secoli, imprinting, tratto genetico. Guardate un film recente che consiglio, Troppo napoletano di Gianluca Ansanelli (2016).

 

 

Il piccolo protagonista della divertentissima commedia sentimentale è l’autentica rappresentazione dell’irrealtà, della superfetazione, del posticcio ideologico dell’adolescenza di Gomorra. E la naturale, logica , coerente, sensata evoluzione dello scugnizzo. Il cui vero, consequenziale, positivo tratto di continuità con la storia dello scugnizzo e della sua narrazione nel tempo è lo stampo del “bimbo adulto”, la capacità di aggirarsi nel mondo degli adulti senza alcuna sudditanza, competendo, privo di gap, con le loro emozioni, pulsioni, moti dell’animo, armamentari psicologici. Qualcosa che, davvero credeteci, nell’infanzia napoletana (e specie nei quartieri storici e simbolo dell’antropologia dello spleen napoletano) ci inciampate. E che forse, non esiste in altri luoghi. Niente a che fare con la baby gang. Che è deturpazione, costruzione artificiale, manufatto filmico, prodotto di manipolazioni subliminali e imitativi, esangui, spettrali e senza storia.

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