Com'è che a Torino le Officine Grandi Riparazioni sono già da riparare
Il simbolo della rinascita che non frena il declino sabaudo
Torino. Doveva essere il Big-bang, la rinascita, la ripartenza. Doveva essere il futuro. Doveva essere l’ancora di salvataggio nel lago in tempesta di Torino. Ma a sei mesi dalla costosissima inaugurazione, nei ristoranti chic di Torino i beninformati cominciano a chiamarlo “il deserto dei tartari”, per la cronica assenza di vitalità e presenze sotto le aspettative, il tenue profilo della programmazione, la totale assenza di passione su media e social media. Le OGR, Officine Grandi Riparazioni, di proprietà di Fondazione CRT – lanciate con “pump and circumstance” l’anno scorso dal Segretario generale Massimo Lapucci, dall’allora presidente Giovanni Quaglia e dal direttore Nicola Ricciardi – stanno diventando nel discorso pubblico culturale sempre più invisibili, sempre meno rilevanti, sempre meno amate. E non investi 100 milioni di euro per fare da tappezzeria. Soltanto nel 2017 il segretario Lapucci le aveva descritte con queste parole rilasciate in un’intervista pubblicata sull’Indice dei Libri del Mese: “Un’officina fisica attraversata dall’eccellenza contemporanea, tanto che mi piacerebbe che in futuro, quando le persone da fuori pensassero a Torino, potessero dire, tra l’altro, ‘andiamo all’Egizio, andiamo a Palazzo reale, andiamo alle OGR’”.
Oggi, nel nevoso marzo dello scontento taurinense, i turisti che ancora arrivano nella prima capitale d’Italia dicono “andiamo all’Egizio, andiamo a Palazzo reale”, ma non dicono mai “andiamo alle OGR”. Non lo dicono neanche i cittadini residenti, non lo dicono quelli che hanno tempo libero e soldi (pensionati), non lo dicono quelli che hanno soldi ma non tempo libero (professionisti), e infine purtroppo non lo dicono nemmeno coloro i quali avrebbero tempo libero ma non soldi (ragazzini). Vediamo perché.
Gli appassionati di musica si sentono traditi da un luogo bizzarro che da pieno sembra vuoto e da vuoto sembra marziano, senza un palco predefinito e senza strutture adattabili e modulari. I ragazzini non lo amano, forse intimoriti da una pletora di controlli degni di un caveau della banca d’Italia, fra brutali badge, controllori scontrosi e armi e allarmi e amori mancati (in fondo ogni perquisizione è un atto di sfiducia, la negazione della fluidità, e la cultura dovrebbe cominciare come una passione erotica, una danza). I professionisti sofisticati sono turbati dalla mirabile ebrezza del cattivo gusto che circonda ogni metro quadrato del ciclopico spazio (35.000 metri quadrati): gobbe decorative nella corte, lampade che farebbero gridare d’orrore Enzo Mari ed Ettore Sottsass, colori stinti e tristi, una profonda absentia di empatia spaziale che trasuda da tutti i pori.
Il programma è poco definito, non sperimentale, non del tutto popolare, non high-brow, non del tutto low-brow e nemmeno nel giusto mezzo: si passa da mostre complesse a concertini da festival liceale, puntando poi sull’usato sicuro in tutte le sue forme (dal grande John Cale ai sempre ottimi Baustelle), mentre il programma culturale è una copia e incolla di altre cose fatte altrove (in qualche modo le OGR sono un Circolo dei lettori post-industriale, ma con un ambiente ributtante e respingente.)
Per molti aspetti – dal sito (fisico e digitale) alla comunicazione pubblicitaria al programma all’estetica generale – il progetto OGR ricorda da vicino le agende delle Casse di Risparmio che ricevevano i nostri genitori nei primi anni Ottanta sotto Natale: utili, tristi, ben piantate nella realtà ma poi annegate nella polvere mentale dell’eccesso di sobrietà. Ma nel 2018 la cultura non è sobrietà, controllo, eleganza: non è una personcina per bene, arretrata, cauta: è tutto il contrario, perché la cultura ai tempi dell’industria 4.0 deve sempre più essere fonte di energia rinnovabile, motore mobile, agenzia di senso da cui sgorgano carisma, poetica della relazione, adesione dello spirito. (A proposito di spirito: oggi la cultura può sostituire lo spirito di partito, ma in cattedrali deserte come le OGR non si raggruma niente di affettivo, e la politica è affetto per il futuro-presente). D’altronde forse è stata la sobrietà a suggerire a Lapucci di affidarsi a mediocri ristoratori da autogrill urbano e a mediocri architetti di studi notarili anziché chiamare grandi nomi internazionali come OMA (o magari spingersi a Milano, da Boeri o Italo Rota), anziché indire un concorso a inviti come fece la Fiat con il Lingotto nel 1981. Dovunque, girando per le OGR, al bar, nei ristoranti, nelle sale immense, fino al notevole gabbiotto per i poliziotti (i veri protagonisti delle OGR sono gli addetti alla sicurezza, che girano senza sosta con sguardi in tralice togliendo spazio ai Walter Benjamin e Theodor Adorno di domani, o agli skater o ai start-upper, tutti profili notoriamente allergici alla vista militare), s’incrociano ornamenti delittuosi, colori senza un senso culturale, arredamenti interni da design film horror.
Oggi alle OGR si fanno mostre, concerti, programmi culturali, come succede in tutti i musei del mondo, anche importando spesso e volentieri format e progetti già visti qua e là. Naturalmente ci sono cose eccellenti, perché il mondo è quello che è, un posto interessante: Tino Sehgal, Arto Lindsay, I Kraftwerk, qualche incontro con autori formidabili. Ma a mancare è il senso, la direzione, l’originalità e la visione che una moderna istituzione culturale dovrebbe possedere con forza e fiducia. Allo stile Ogr manca quel codice magico umano che trasforma un contenitore squillante in un luogo cruciale: qualcosa che traini le Officine dall’irrilevanza piena di promesse di ogni cosa nuova alla necessità di quel che davvero conta.
Tanti anni fa, nel 2010, le OGR – sotto la guida dell’ex segretario Angelo Miglietta e con l’allora sindaco di Torino Chiamparino – dovevano diventare un polo globale di invenzione e inventario dei materiali culturali della post-post-modernità, e per progettarla e dirigerla non si erano fatte telefonate agli amici di Unicredit ma si era convocato un gruppo di persone di enorme qualità. Basta giudicare dalle loro carriere successive per rendersene conto: c’erano Joseph Grima (che poi ha diretto la candidatura di Matera 2019, Ideas City del New Museum, ora la scuola di design di Eindhoven), Carlo Antonelli (Wired, Rolling Stone, GQ, produttore dei film di Guadagnino e ora direttore di Villa Croce a Genova), Pablo Leon de La Barra (curatore al Guggenheim di New York tra le altre cose), Ute Meta Bauer (MIT, Royal College, ex direttrice Documenta), Vivian Rosenthal (una delle massime esperte di realtà aumentata in Usa) e altri talenti della stessa impressionante qualità. Con loro quel gruppo aveva concepito idee intriganti e non derivative che come da tradizione italiana sono state sotterrate al primo cambio di dirigenza del committente.
Ma tutto questo accadeva otto anni fa, e il mondo – non solo a Torino – appare assai diverso oggi. Non credo che Fassino e Co. avrebbero dato una sferzata visionaria e ingegnosa al progetto Ogr, ma di sicuro non si sarebbero accontentati di lasciare nelle mani di un solo uomo al comando le scelte fondamentali di un’impresa del genere. Le fondazioni bancarie, è bene ricordarlo, devono rispondere alla comunità locale e non soltanto attraverso le segreterie dei partiti o delle università: i soldi gestiti dalle fondazioni bancarie sono in parte soldi sottratti all’erario, e perciò sarebbe doveroso non trattarle come la propria srl.
Nella vulgata sull’innegabile declino di Torino le OGR vengono spesso citate come “luce dentro il tunnel” sabaudo, e mai come l’ennesimo segno dello sballo triste di una città che per risollevarsi avrebbe furioso bisogno di una pira di idee, non di una serie di cerini alla mercé degli elementi. Le Officine Grandi Riparazioni di Torino stanno diventando la piccola fiammiferaia delle istituzioni culturali italiane. Toccherà a un uomo avvertito e colto come Fulvio Gianaria, oggi presidente della società OGR-CRT in sostituzione di Quaglia, prendere contromisure imponenti. Certo, si possono migliorare le cose e tentare sterzate immaginifiche: ma sono convinto che senza una sostituzione radicale e immediata di coloro che ne reggono le sorti (alcuni nomi li suggerisco nei paragrafi sopra), la fiaccola che avrebbe potuto illuminare il percorso della città post-olimpica tramuterà in uno stoppino bagnato.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio