Alle radici del disastro di Genova ci sono tutte le sindromi dell'ipertrofia burocratica
Il crollo del ponte Morandi è una tragedia vera: per il tributo di vite umane, per la rottura fisica e simbolica della città, per il senso di fragilità e inadeguatezza che si ribalta su un’economia provata e indebolita
Genova. “Insiste inutilmente il cielo sulla nostra città, che da acqua, fango e bombe ne è sempre uscita”, recitano gli amari e anonimi versi che tanti genovesi hanno condiviso sui social network. Il crollo del ponte Morandi è una tragedia vera: per il tributo di vite umane, per la rottura fisica e simbolica della città, per il senso di fragilità e inadeguatezza che si ribalta su un’economia provata e indebolita. Mentre ancora la polvere non si è posata, forse non è il tempo di pretendere quelle risposte, che potranno arrivare solo con le perizie tecniche, le verifiche amministrative e le indagini della magistratura. E’ il tempo di porre le domande giuste.
La prima domanda è la più semplice: che fare, oggi? La priorità non è appendere un presunto colpevole al ramo più alto. Semmai, riconoscere che Genova è ferita e bisognosa di aiuto. Non servono fiori, ma opere di bene: intervenire per ripristinare la viabilità. Ricomporre la drammatica frattura di Genova, della Liguria e del nord-ovest deve essere il primo e più inderogabile degli obiettivi. Costi quel che costi.
La seconda questione riguarda la dinamica dell’incidente: cosa è successo? Quali sono le responsabilità di Autostrade? Ha senso revocare la concessione? Quasi nessuna di queste domande ha un sentenza semplice o immediata. La dinamica del crollo va compresa, e vanno ricostruiti gli interventi del gestore dell’infrastruttura per verificare eventuali negligenze. Va anche capito se i controlli siano stati attenti, puntuali e capillari come avrebbero dovuto. Di certo, prendere provvedimenti esemplari prima di avere fatto chiarezza rappresenta non solo una spallata allo stato di diritto. Come ha ricordato Roberto Sculli sul Secolo XIX, sarebbe anche un indebolimento autolesionista di Autostrade, proprio quando è nell’interesse pubblico che si attivi subito per ripristinare i collegamenti. Semmai, bisogna investire su un sistema di monitoraggio e controllo più efficace e su una regolazione del settore autostradale più moderna e trasparente, sulla scorta delle infrastrutture energetiche: l’Autorità per i trasporti ne ha la capacità e gli strumenti tecnici, ma non ha poteri sulle vecchie concessioni.
Infine: perché, trentaquattro anni dopo il primo progetto di Gronda, e nove dopo il dibattito pubblico voluto dall’allora sindaca Marta Vincenzi, l’autorizzazione è arrivata solo nel 2017 e i lavori inizieranno (se tutto va bene) alla fine di quest’anno? Il problema riguarda quella complessa dinamica descritta da Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri nel loro libro “I signori del tempo perso”: l’iper-regolamentazione, la proliferazione degli adempimenti formali e l’indecisionismo della politica creano un forte disincentivo a dare il via libera a un’opera, a tutto vantaggio del partito dello status quo. Il principale ostacolo agli investimenti pubblici in Italia non sta nella scarsità delle risorse (che, per esempio, nel caso della Gronda sono garantite dai pedaggi) ma dalla moltiplicazione delle carte bollate. Non di rado, peraltro, le lungaggini forniscono l’alibi a quei politici che non vogliono mettere le dita negli occhi ai “comitati del No”. Di conseguenza, la via maestra per l’ammodernamento infrastrutturale sta nella semplificazione dei processi, nella contendibilità degli affidamenti, nel passaggio a forme di smart regulation e nella distinzione netta tra regolatore e regolato.
Il doppio paradosso del governo gialloverde è che da un lato minaccia la nazionalizzazione perché “non possiamo attendere i tempi della giustizia”, pur proponendosi di estirpare la prescrizione, con questo ampliando a dismisura l’alea giudiziaria. Dall’altro lato, agli oggettivi problemi di un monopolio mal regolato pretende di reagire con la statalizzazione – cioè un monopolio sregolato – anziché la regolazione moderna. La lezione di Genova è che spesso i fallimenti infrastrutturali hanno radici istituzionali: non servono minacce, ma riforme. Non grida, ma silenzio per rispetto dei morti, e lavoro per il futuro dei vivi.
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