Il crollo di una promessa
A Genova credevamo di avere imboccato la strada verso una città migliore, invece ci troviamo a rimpiangere quella dei nostri padri. Mugugno con vista sulle macerie del viadotto Morandi
E’ il 1986, mio padre mi porta a vedere da lontano l’inaugurazione dell’aeroporto Cristoforo Colombo a Genova. Viene il presidente del Consiglio Bettino Craxi, ci sono le Frecce tricolori che stanno per sorvolare le piste – sono una costruzione artificiale sul mare, e infatti il decollo e l’atterraggio sono bellissimi perché passi a bassa quota sull’acqua – e noi andiamo a vedere tutto da un fianco della collina di Coronata dove abitiamo. C’è molta gente che è venuta a guardare come noi, qualcuno ha i binocoli, c’è un senso non detto che tutte le cose stanno andando per il meglio, che se quest’anno vanno bene l’anno prossimo andranno bene anche di più. Genova ha un aeroporto nuovo, lo slogan è “Nasce il Porto del Cielo”, chissà quali altre novità ci porterà il futuro. Ci sono ancora le acciaierie lì in fondo accanto all’aeroporto, era il polo siderurgico più grande d’Europa quando era stato costruito ma è incastonato dentro la città, un po’ troppo in mezzo alle case, prima o poi dovrà sparire e con esso anche tutti i posti di lavoro, ma oggi non ci si pensa. Come si fa a non essere fiduciosi? E’ un bel sabato pomeriggio di maggio. Ci saranno altri posti di lavoro, più puliti. Torniamo dall’altro lato della nostra collina, quello che affaccia a levante sulla Val Polcevera. Proprio sotto casa nostra c’è il ponte Morandi, la galleria è come se passasse fra i nostri piedi, le macchine sbucano e fanno un chilometro sospese a quaranta metri d’altezza sopra le case fino a Belvedere, la collina dirimpetto. Sono sessantamila al giorno. Quel viadotto è sempre davanti ai nostri occhi ma noi non lo vediamo più, abbiamo perso la sensibilità alla sua presenza, immagino che succeda la stessa cosa a chi abita dritto davanti al mare, ti affacci alla finestra e non ci fai più caso. Sai che c’è qualcosa di grande ma ormai è come se fosse sfocato per i tuoi sensi, è scomparso lentamente dalla tua percezione. A volte però di sera c’è coda e allora vedi le centinaia di luci rosse degli stop dei veicoli in fila nel buio.
In città c’è un nuovo sentimento. Sarebbe “teniamoci stretto quello che abbiamo, perché quando lo perderemo non tornerà più”
In questi giorni c’è di nuovo molta gente con i binocoli affacciata dalla stessa collina di Coronata, perché è la piattaforma perfetta per guardare e filmare con i telefonini i due tronconi rimasti in piedi del Morandi. Anche la foto che illustrava l’articolo finito nella homepage del sito del New York Times è stata scattata da lì. I lavori del dopo disastro sono così vicini che di notte vedi i vigili del fuoco muoversi fra le macerie alla luce delle cellule fotoelettriche e senti il rumore senza pause dei martelli pneumatici. Molti conoscono da vicino qualcuno dei morti, altri no, meno male dicono, perché adesso con i due pezzi di viadotto ancora in piedi sarebbe come vivere con una tomba permanente davanti agli occhi, fino a quando qualcuno non farà piazza pulita di tutto.
Cinque mesi, dicono le Autostrade, e ci sarà un viadotto nuovo, ma la totalità degli spettatori prende questa dichiarazione dei cinque mesi come una boutade fatta da gente che in realtà è in preda al panico. Un ponte nuovo a rimpiazzare quello vecchio entro gennaio? Nel caso migliore ci vorranno cinque mesi soltanto per demolire tutte le case e i palazzi che stanno lì sotto, fra i piedi del viadotto, e poi per buttare giù i resti del viadotto stesso. Senza contare che prima ci sarà l’indagine della magistratura che sequestrerà tutto. Di “fiduciosa attesa nel futuro” nel 2018 è meglio non parlarne neanche. Il senso che tutte le cose sarebbero andate per il meglio e che Genova sarebbe diventata un posto sempre più attraente non c’è più, è sparito, non si sa dire con esattezza quando nell’arco degli ultimi trent’anni, ma è stato rimpiazzato da un altro sentimento. Non so come definirlo in una sola parola, sarebbe “teniamoci stretto quello che abbiamo, perché quando lo perderemo non tornerà più”. La visita del presidente del Consiglio Giuseppe Conte fra le macerie inaugura il mondo nuovo, molto complicato e peggiore di quello precedente, dove si combatterà per tenere in vita il porto ai livelli di prima e dove si starà parecchio in coda per fare la stessa distanza che prima si copriva in dieci minuti. C’era un piano per investire quattro miliardi di euro nella rete autostradale di Genova e costruire la cosiddetta Gronda, i lavori dovevano partire a ottobre, ma il primo giorno di agosto il ministro dei Trasporti Toninelli ha inserito la Gronda in un elenco di opere inutili che potrebbero essere abbandonate. Oggi servirebbe alla città come l’ossigeno.
Questo pezzo di Genova è una grande esposizione di infrastrutture gigantesche a cielo aperto. Sullo stesso fianco della collina dove adesso ci sono i fotografi del New York Times c’erano anche tre serbatoi di greggio dell’Erg, con le stesse misure fuori scala del viadotto, roba da far rimpicciolire qualsiasi cosa attorno. Adesso ne è rimasto soltanto uno, gli altri stati buttati giù. Poco più in là torreggia un gasometro arrugginito e c’era anche una ciminiera che era alta come mezza collina ed è stata demolita due anni fa. Su via Cornigliano, che è molto vicina, c’erano due gasometri alti settanta metri che servivano a raccogliere i gas prodotti dal processo della cockeria dell’Ilva, erano spettacolari, avevano la sommità dipinta a scacchi bianchi e rossi, erano totalmente incongrui con il resto del quartiere e occhieggiavano da sopra i palazzi di cinque piani come i mostri giapponesi dei film. Sono stati abbattuti anche loro dieci anni fa, come naturalmente anche l’altoforno.
Alle scuole elementari ci distribuivano gratis un’agenda scolastica molto ecologista in carta riciclata all’inizio dell’anno, natura e ambiente erano una priorità molto sentita, l’idea era che presto la città avrebbe abbandonato questa sua fase industriale e un po’ retrograda e sarebbe entrata in una nuova èra. I grandi parlavano già di un’autostrada alternativa che avrebbe dovuto rimpiazzare il ponte Morandi, era l’idea embrionale della Gronda che però ci avrebbe messo ancora molti anni prima di entrare nel campo della realtà, delle cose fattibili. Intanto era compito nostro diventare qualcosa di differente dal passato, in città saremmo dovuti diventare più fighi, fighi tipo l’Acquario che ora è il nostro pezzo forte e ci sono sempre i turisti da fuori in coda davanti per entrare, saremmo dovuti diventare i padroni di un posto funzionante alla pari con la Genova industriale ma questa volta senza altiforni.
La sciagura non si è consumata tutta in quei pochi minuti, ha il potenziale per continuare a infliggere danni per anni
Però non ci stiamo riuscendo, forse non ci siamo proprio riusciti e basta. Poco sotto il ponte Morandi c’è un capannone che ospita un cosiddetto incubatore di startup, è un investimento sul futuro, ci sono trenta piccole aziende che condividono lo stesso spazio per tentare di diventare grandi – certe fanno il loro lavoro soltanto su computer, altre ci tengono macchinari così grandi che non possono essere spostati. Da martedì è tutto chiuso, perché l’incubatore delle startup è nella cosiddetta zona rossa, quella dove non puoi entrare a riprenderti le cose se non sei accompagnato dai vigili del fuoco. Doveva essere una spinta per far ripartire le imprese genovesi, adesso è sbarrato all’interno della zona a rischio. “E queste sono imprese allo stadio iniziale, non possono permettersi di stare ferme per un mese, devono vedere tornare gli investimenti e se non fatturano sono finite”, ci dice chi si prende cura di loro, rischiano di morire in culla. Lunedì c’è un incontro con il capo dei vigili del fuoco per capire quali saranno i tempi del ritorno, c’è un’azienda che tiene lì il server internet, se non può farlo funzionare è come se non esistesse, anche l’economia immateriale ha bisogno di un tetto. Poco oltre l’incubatore c’è Ansaldo Energia, che stava proprio sotto il ponte. I camion entravano e uscivano fra i piloni per portare i componenti finiti al porto, la struttura è stata soltanto sfiorata dai pezzi in caduta – e non c’era nessuno perché è agosto – ma adesso tira un’aria pessima. Già a luglio Ansaldo Energia aveva detto che alla riapertura c’era la possibilità che qualcuno dei duemilaquattrocento lavoratori restasse a casa (duemilaquattrocento posti di lavoro che traballano, in tutto il paese sarebbero considerati ovviamente una crisi occupazionale molto brutta, nella Genova in declino di questi anni sono un potenziale disastro dopo il disastro). Il crollo del Morandi complica la situazione. Sabato notte tra mezzanotte e l’una Ansaldo Energia farà uscire dallo stabilimento un trasporto eccezionale per spostare un componente all’altro stabilimento di Cornigliano – da dove poi sarà imbarcato su una nave per arrivare al cantiere di una centrale elettrica in Tunisia. Si tratta di una sortita da dentro la zona a rischio organizzata ovviamente assieme con Comune, governo e forze dell’ordine. Il concetto è semplice e assieme spaventoso: la sciagura del viadotto non si è consumata del tutto in quei pochi minuti del 14 agosto, ha il potenziale per continuare e vivere di vita propria e contagiare il resto di Genova e infliggere danni per anni – se non si fa qualcosa.
Genova è una striscia lunga venti chilometri fra il mare e i monti alle spalle, intersecata da due grandi valli. Chiudi una direttrice importante a Milano o a Torino e ti rimangono comunque molte altre strade alternative. Chiudi una strada a Genova invece ed è come recidere una pianta, se non agisci in fretta appassisce. In questo momento se si vuole passare tra la zona est della città e quella ovest – tra il Levante e il Ponente – senza lasciare l’autostrada è necessario salire su fino a Tortona, che dista settanta chilometri, e scendere giù dall’altra parte. E’ una deviazione monstre da due ore se tutto fila liscio. Altrimenti tocca lasciare l’autostrada e imboccare strade che spesso sono a una sola corsia, come faranno tutti, ma lo spazio in città è quello che è, molto compresso. Ci sono dei colli di bottiglia – vedi Fegino – da far rabbrividire gli esperti di logistica che in questi giorni provano a immaginare come scorrerà la nuova vita di Genova, se scorrerà.
Il porto non può chiudere e non può rallentare, perché ne andrebbe di mezzo un numero spropositato di posti di lavoro
L’idea è di separare il traffico normale da quello dei tir che vanno e vengono dal porto della città – il porto che non può chiudere e non può rallentare, perché è in competizione con altri porti internazionali e ne andrebbe di mezzo un numero spropositato di posti di lavoro: tra occupazione diretta e indotto a livello nazionale più di centomila. Un’idea è far passare i tir dalla cosiddetta via del Papa, una strada privata dentro l’area del grande stabilimento siderurgico di Cornigliano (che è accanto al porto, ma come si è capito a Genova è disposta in sequenza, tutto è accanto a tutto il resto) che era stata costruita per la prima visita di Papa Giovanni Paolo II nel settembre 1985 – fu una cosa epica, la giunta di centrosinistra per l’occasione fece ri-asfaltare le strade principali della città come una nuora mette in ordine la casa prima della visita della suocera (e asfaltare a quel tempo era ancora un verbo squisitamente progressista). Ma per quanto gli esperti di logistica si lambiccheranno il cervello, è inevitabile che i due flussi di traffico, quello legato al porto e quello normale, entrino in collisione in qualche punto. C’è anche un tocco di sfortuna. Un mese fa la rampa autostradale di Cornigliano – che coinvolge anche l’aeroporto – è stata abbattuta per cominciare lavori che dovrebbero durare fino alla fine del 2019, si sapeva che la cosa avrebbe complicato la vita della città ma amen, si metteva in conto che fosse un disagio sopportabile. Adesso l’apertura dei lavori in combinazione con la morte del viadotto crea un guazzabuglio deprimente.
Ricordo che un venerdì sera poco dopo le undici mio padre mi venne a prendere alla stazione dei treni di Genova dopo un periodo di lavoro al Cairo. Nella capitale egiziana popolata da diciotto milioni di persone, la maggior parte adolescenti, la vita è un turbine che non si ferma mai di notte o di giorno. C’è via vai anche alle tre del mattino, quando i cofani delle auto parcheggiate nella via fanno da sedile per bambini ancora misteriosamente svegli. Le vie di Genova per contrasto erano vuote, lunghe, buie, come se tutta la popolazione fosse andata da qualche altra parte. So molto bene che quella sera ero vittima di un’illusione ottica dovuta a molti fattori, ma non riesco a liberarmi dal pensiero che fosse un’anticipazione del mondo nuovo, quello in cui tutte le fragilità di casa – l’età media molto alta, la mancanza di lavoro, le infrastrutture non più all’altezza degli abitanti – cospirano assieme per spaventare i genovesi.
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