Non sparate sul progettista
Il disastro di Genova ha tanti padri. Chi era Riccardo Morandi, l’ingegnere dalle idee geniali che disegnò il ponte sul Polcevera. Con Nervi e Zorzi governò l’epoca eroica del cemento armato
Ma non lo sapete che tutti i ponti di Morandi hanno avuto problemi? Oddio a Roma c’è il cavalcavia della Magliana di Morandi! Dagli a Morandi! Peccato davvero che l’ingegner Riccardo Morandi sia morto 29 anni or sono, nell’anno di un altro crollo, quello del Muro di Berlino. Nonostante l’evidente assurdità del caso, in molti, giornalisti del servizio pubblico compresi, hanno cominciato a dare la colpa a lui, a dire che i suoi arditi ponti hanno dato tanti problemi in Venezuela, ad Agrigento, sul Basento, insomma è colpa sua, e poi avanti a cercare altre teste eccellenti da impalare, mentre disastri gravi come quello di Genova ovviamente hanno tanti padri.
Nato a Roma nel 1902, al contrario della maggioranza dei suoi colleghi lavorò per tutta la vita solo per soggetti privati
Ma chi era Morandi? Di certo non uno scienziato pazzo, bensì uno del triumvirato aureo che governò l’epoca eroica del cemento armato insieme con Pier Luigi Nervi e Silvano Zorzi, in una nazione che ha la stessa età dell’Italcementi Spa (fondata nel 1864). Era nato a Roma nel 1902 in una famiglia agiata, padre maresciallo dei Carabinieri e madre archeologa, laurea in Ingegneria nel 1927 alla Sapienza poi subito in missione in Calabria e Sicilia per mettere in sicurezza le chiese e gli edifici pubblici dei paesi colpiti dal catastrofico terremoto di Messina di vent’anni prima, imparando ad andare a cavallo su strade sterrate perché in quell’Italia non c’erano infrastrutture, ma insidie, guasti e miseria. Nel 1931 torna a Roma e apre il suo studio e, al contrario della stragrande maggioranza dei suoi colleghi e degli architetti romani, per tutta la vita lavorerà solo per soggetti privati. Mai statale, giusto qualche tardo corso all’Università di Firenze, ma da contrattista precario felice. Anche le sue ricerche avveniristiche sul cemento precompresso e sui carichi statici cominciarono negli anni Trenta in uno stabilimento di Testaccio messo a disposizione da un’azienda privata, come in America. Tutti i clienti gli furono assai fedeli, a partire da Italo Gemini, self made man del cinema italiano, proprietario di molte sale, fondatore dell’Agis, dell’Uiec e inventore dei David di Donatello. A partire dal 1935 Gemini commissionò a Morandi una ventina di cinema, anche se ne realizzò solo una decina come il Maestoso sulla via Appia che ospitava delle residenze poggiate sopra la struttura a ponte della sala sottostante. Molta parte del lavoro dell’ingegnere romano era dedicata ovviamente a fare consulenze strutturali per le palazzine della capitale.
Prima, durante e dopo la guerra, Morandi ebbe anche la ventura di realizzare il sogno di Le Corbusier: quello di costruire un’intera città, Colleferro, a sud della capitale, dove la società Bpd stabilì la produzione di polvere da sparo. Nel 1935 Leopoldo Parodi Delfino propose di cedere la sua company town allo stato in cambio che venisse riconosciuto come comune autonomo, proposta subito accettata; così Morandi continuò a lavorarci per tutta la vita con una continuità più unica che rara progettando dagli stabilimenti industriali alle residenze operaie, dalla chiesa alla casa del fascio fino al piano regolatore. Durante la guerra nascose ai tedeschi che li richiedevano molti macchinari nelle cave di pozzolana, altri vennero presi e portati fino a Milano, e l’ingegnere accusato ufficialmente di sabotaggio perché si rifiutò di riprendere la produzione di armamenti per il Reich, dandosi alla macchia nelle campagne per due anni con una carta d’identità falsa: Riccardo Rossi, geometra. Poi il ritorno alla normalità e l’impetuosa corsa verso la modernizzazione italiana insieme a tutti gli altri attori di quel periodo irripetibile che vide il fiorire di decine di grandi progettisti, da Franco Albini a Marco Zanuso, l’epoca aurea insomma degli Enrico Mattei e Adriano Olivetti.
Era una punta di diamante del suo tempo, giudicarlo con i criteri di oggi è superficiale. Il confronto con Levi. “Non era un teorico”
Nel Dopoguerra Morandi deposita cinque brevetti per cemento precompresso, dopodiché è un crescendo rossiniano e fatalmente l’ultimo e più longevo studio sarà proprio in via Rossini, zona Parioli. Nel 1950 costruisce il primo ponte in precompresso della storia d’Italia, sul fiume Elsa a Empoli, lungo 40 metri: solo Eugène Freyssinet ne aveva realizzati un paio in Francia anni addietro, ma più piccoli, rozzi e tozzi. Altro che Calatrava! Il primo ponte morandiano supera in lunghezza qualsiasi ponticello dell’ingegnere spagnolo che gli stralli metallici li usa solo a fini decorativi. I ponti furono così tanti che argutamente Bruno Zevi battezzò sull’Espresso Morandi come “Le Corbusier sulle quattro ruote”. L’eleganza formale dei suoi viadotti era pari solo a quella nel vestire, i capelli ordinati dalla brillantina, impeccabile quanto schivo nella vita privata; i pochi che avevano il privilegio di poterlo andare a trovare, si stupivano che non li portasse a vedere le sue opere, ma quelle degli antichi romani – inventori dell’arco e del calcestruzzo – autori di ponti e acquedotti colossali, per sempre fedele all’insegnamento della madre archeologa amata fino al punto di assumerne il cognome come Picasso. Morandi era insomma in tutto distante dal suo antagonista Nervi, il cui studio sul lungotevere distava poche centinaia di metri. Più pratico da buon lombardo, Nervi, capelli disordinati, con famiglia patriarcale (lavorava con i figli), era onnipresente sulle riviste e agli appuntamenti professionali e politici di peso nell’Inarch o nell’Inu organizzati da Zevi, ovviamente in quota democristiana. Una cosa sola li univa, il lavoro indefesso e senza pause, stile Marchionne.
Gabriele Neri, autore di Capolavori in miniatura. Pier Luigi Nervi e la modellazione strutturale (Silvana, 2014), dice che “Nervi si portava appresso una ventiquattrore con i disegni e piani essenziali dei progetti in corso per poter lavorare anche a Cortina ad agosto. Non si fidava però del cemento precompresso anche se aveva fatto studi in prima persona. Aveva valutato ad esempio il suo utilizzo per il Pirellone milanese progettato insieme con Gio Ponti dal 1956, ma Arturo Danusso, che faceva parte del gruppo di progettazione, lo indusse a desistere”. Nervi è stato grande, ma non ha brillato certo per i ponti, ne ha realizzati giusto un paio a Verona e Roma (viadotto di Corso Francia) che sono mere strutture appoggiate.
Ebbe anche la ventura di realizzare il sogno di Le Corbusier: quello di costruire un’intera città, Colleferro, a sud della capitale
La più profonda e autorevole studiosa di Morandi, che nessuno ha interpellato in questi giorni, è Marzia Marandola, storica dell’architettura della Sapienza (ma dottore di ricerca in ingegneria edile), autrice di un libro che andrebbe fatto leggere non nelle scuole ma nel Consiglio dei ministri col fucile spianato: La costruzione in precompresso. Conoscere per recuperare il patrimonio italiano (Il Sole 24 Ore, 2009). “E’ incredibile il clima di insinuazioni contro Morandi degli ultimi giorni, lui che è stato soprattutto un tecnico al servizio della società e che il concorso del ponte sul Polcevera lo ha vinto con Condotte Spa non solo per i bassi costi di realizzazione per quello che comunque è il ponte più lungo d’Italia, ma anche e soprattutto per la concezione inaudita di un cantiere sospeso che poteva avanzare insomma senza bloccare Genova e la Liguria, ma soprattutto la zona portuale adiacente. Lì era attiva infatti l’Italsider, pilastro del boom economico italiano e dello storico triangolo industriale Torino-Milano-Genova. E’ chiaro che l’usura e il carico aumentato oltre le previsioni già dieci anni dopo la costruzione, e a soli venti dalla realizzazione del primo sull’Elsa, hanno reso difficile persino la manutenzione di un sistema così perfettamente calibrato che non è regolabile. Non voglio nemmeno entrare nelle polemiche prima dei referti, ma lei sa che negli Stati Uniti, dove tutti i grandi ponti sono in ferro o acciaio, ci sono cantieri di manutenzione permanente? E infatti quasi sempre si paga un pedaggio solo per il ponte e in ogni caso la manutenzione è molto più semplice perché basta sostituirne i singoli pezzi all’occorrenza”. Per rifarlo in acciaio farebbe comodo avere l’Ilva aperta e funzionante, verrebbe da pensare, ma non divaghiamo: “Quello di Genova è il ponte più difficile perché tutto il peso è portato in alto sui tre grandi stralli e collegato all’impalcato stradale in un sistema complessivo che era anche un capolavoro di bilanciamento oltre che di importanza formale. Di solito sui ponti non avvertiamo tutto lo sforzo per realizzarli, come nelle decine di viadotti in precompresso sulle autostrade, realizzati da Carlo Cestelli Guidi e altri ingegneri meno noti. A Genova abbiamo come dei grandi portali che inducono una solennità cerimoniale al nostro passaggio, inoltre a Maracaibo e in Libia non c’era una grande città intorno dove organizzare un cantiere così complesso”. Già, Maracaibo, un ponte lungo quasi nove chilometri tra mare e laguna lacustre colpevole di aver fatto crollare due campate perché nel 1964 gli andò a sbattere contro una gigantesca petroliera fuori controllo, così come il Venezuela di oggi. Inoltre – scrive Annalisa Grandi sul Corriere della Sera, notizia subito ripresa dal ministro Toninelli – nel 2017 è stato chiuso il ponte simile Wadi al-Kuf per deterioramento, ma in un paese che è completamente deteriorato e in mano a una guerra per bande, che cos’è che i militari chiudono o fanno saltare per primi se non i ponti? L’istinto giornalistico che riversa la colpa sul progettista, deresponsabilizzando tutti gli altri, è tecnicamente populismo che fa il paio con l’eterno rilancio di Tom Wolfe di Maledetti architetti anche nella versione amatriciana di un Nicola Porro che si permette di liquidare Renzo Piano come “l’architetto delle cagate”. Cinquant’anni non sono poi molti per conoscere l’esatto comportamento e deterioramento di una tecnica così sofisticata mai vista prima, e per carità, nulla impedisce ora di demolire e ricostruire altrimenti.
La concezione inaudita di un cantiere sospeso che poteva avanzare senza bloccare Genova e la Liguria, ma soprattutto il porto
In un periodo storico irrazionale come il nostro, opere come il ponte Morandi sono inimmaginabili per tanti motivi, visto che si fa la guerra a opere ben più modeste come ferrovie o gasdotti che servono soprattutto e soltanto a ridurre il traffico su gomma. Ovvio che Morandi all’epoca si confrontò con la situazione che aveva: costi di manodopera bassi, costi di produzione e di messa in opera del calcestruzzo bassi, vale a dire simili a quella di Dubai oggi, dove tutti i grattacieli sono di cemento. Viceversa dove la manodopera è molto costosa come a New York o Londra, ecco che i ponti e i grattacieli hanno struttura in pezzi di acciaio prefabbricati vale a dire facili da assemblare velocemente, riducendo così il costo della manodopera pur col prezzo più alto del materiale. Morandi era una punta di diamante del suo tempo, giudicarlo con i criteri di oggi è quanto di più superficiale si possa fare. Nel 1969 partecipò, com’è naturale, alla commissione giudicante per il grande concorso internazionale per il ponte sullo stretto di Messina lungo circa tre chilometri, storica battaglia del Pci siciliano e di tutto il meridionalismo, mentre oggi è il grande Satana fra tutte le grandi opere.
Da sempre però, nonostante i riconoscimenti e i successi professionali, Morandi è stato marcato stretto dai controlli, ad esempio da Franco Levi, luminare torinese di scienza delle costruzioni, a lungo presidente del Ceb (Comité Européen du Béton) e della Fip (Fédération International de la Précontrainte), che fu incaricato dal Cnr di creare un centro studi sulle coazioni elastiche cioè un osservatorio ad personam. Ne nacque però un dialogo a distanza, se non un’amicizia, fatta di lettere, di scambi di opinioni, di visite in cantiere e di discussioni che fecero dialogare pratica e teoria, accademia e professione, tradizione e avanguardia, elaborando così le prime normative di settore. Levi, autore del celebre Palazzo a Vela costruito per il centenario dell’unità d’Italia e infine consulente di Renzo Piano per la ristrutturazione del Lingotto, rivelò prima di morire in un’intervista alla Marandola che “Le opere di Nervi sono molto belle dentro ma fuori non sono gran che! Se va a vedere qui a Torino il salone, l’esterno non vale niente, invece la volta della zona di pattinaggio è splendida, la volta di copertura… Morandi era strano perché effettivamente aveva delle idee geniali e poi da altri punti di vista era meno capace. Insomma non era un teorico. Faceva il suo mestiere. D’altra parte bisogna dire che progettisti che siano anche teorici non è che ce ne sono, perché le preoccupazioni teoriche sono in contrasto con l’inventiva”.