E se il Morandi fosse stato sottoposto a un “risk assessment”?
Manca una cultura di controllo “in profondità” dei materiali, come c’è per il nucleare. È il momento di cambiare metodi
Ho un mio sospetto e sensazione sul Ponte Morandi. Che non pretendo sia la verità. Deriva da alcune dichiarazioni tecniche di esperti ascoltate in tv e lette sui giornali. E deriva dalla mia passione per le centrali nucleari e i loro principi di progettazione e costruzione. Direte che c’entra? C’entra e lo vedremo. Il sospetto: la manutenzione non c’entra nulla. Tantomeno quella piccola, ordinaria, di routine che decide ed è obbligato a fare il concessionario. Solo un cretino (o un sempliciotto fanatico che odia il privato per principio anticapitalistico) può pensare che un ponte “ardito” e così importante crolli perché il concessionario di un’intera rete autostradale (che rende e dove il privato investe quasi il 50 per cento dei ricavi) ometta qualche controllo ordinario e lucri sulla manutenzione.
Troppo stupida come condotta, inverosimile e, managerialmente, improbabile per un grande operatore internazionale di “mestiere”. Il gioco (risparmio) non sarebbe valsa la candela (come, purtroppo, si è dimostrato). Solo gli sciacalli a cinque stelle, che hanno da distrarre le masse aizzando verso un colpevole (per abitudine e cultura) e per allontanare il fango da sé (sono stati a Genova, per oltre 10 anni, insieme a settori subalterni della sinistra locale, i principali sostenitori dell’eternità del ponte Morandi), possono credere alla “favoletta” delle manutenzioni ordinarie evitate.
La cosa è più grossa. Molto più grossa. Riguarda, semmai, la sfera delle “manutenzioni straordinarie”. Che si chiamano “manutenzione” solo per convenzione e la cui decisione di effettuarle riguarda, in primo luogo lo Stato vigilante. Che deve, semmai, farne obbligo alla società concessionaria (si tratta del valore da custodire di un bene di proprietà dello Stato). Il sospetto è che sia stato sottovalutata, anzi forse mai valutata, una possibilità: quella, adombrata da più di uno tra ingegneri e tecnici, di un cedimento per ragioni “intrinseche”. Forse non rilevabili, persino, da alcun apparente segno, esterno e visibile, di allarme.
Potrebbe rivelarsi che la causa del crollo sia dovuta ad una imprevista (in sede di progetto e concepimento dell’opera) “criticità del materiale” del ponte, del suo stesso cemento armato (ma lo stesso, nell’ipotesi che stiamo affrontando, varrebbe se ad aver ceduto fosse l’acciaio dei cavi). Nei materiali (che sono, alla fine, assemblaggi di atomi) esiste una particolarità: un punto critico. Raggiunto il quale la materia cambia forma, collassa o muta di fase (dall’acqua al ghiaccio ad esempio). La più diffusa di questi fattori di punto critico è la “risonanza”. Che significa? È un fenomeno chiave della materia atomica. Gli atomi, in un qualunque materiale, non stanno insieme in modo statico. A livello microscopico si agitano furiosamente (e con tanto spazio a disposizione per farlo). Il legame tra atomi nella materia è molto… movimentato.
Gli atomi di ogni materiale oscillano perennemente. Con loro specifiche frequenze elettromagnetiche di oscillazioni. Ci sono numerosi fenomeni in natura di “catastrofe” (rottura o cambiamenti di legami atomici) causati dall’incontro casuale tra frequenze, simili e collimanti, delle oscillazioni degli atomi di un corpo (esempio un blocco cementizio) e le stesse frequenze indotte da un fattore esterno che interagisce con quel corpo (magari onde prodotte da sollecitazioni elastiche o pressioni applicate a quel corpo, a quel volume di atomi). Per capirci: il famoso “punto critico” che, toccato (sollecitato) il quale, casualmente e senza particolari forze applicate, fa collassare un bicchiere di solidissimo, consistente e perfetto cristallo. Non è facile trovare quel punto. Anzi c’è una probabilità remotissima. Si tratta di effetti nel mondo microcoscopico (atomi e molecole) della materia che non vediamo. E che è quasi ineffabile. Tantomeno con controlli ordinari.
Può darsi che esistesse, nel cemento armato di Morandi, un tale punto critico di risonanza? E che, magari, il fattore esterno scatenante possa essere stato il cumulo progressivo di onde sollecitatrici del traffico che, moltiplicandosi in volume, abbiano determinato il “punto di risonanza”? Ci sono ingegneri ed esperti che hanno, in questi giorni, adombrato questa possibilità. La questione sarebbe delicata. E non assolverebbe da responsabilità. Quali? Non aver sottoposto il ponte Morandi a una verifica di “progetto in “profondità” (risk assessment) come si dice. Ben oltre gli aspetti visibili che inducono alla manutenzione ordinaria.
Si sono mai posti, Stato e concessionario, l’interrogativo: “Potrebbe esserci, per il cemento del ponte Morandi, un limite di sostenibilità e un punto critico (risonanza) di sopportabilità a determinati volumi di sollecitazioni e frequenze di oscillazioni (traffico)? Non considerato nel progetto originario? E che riguarda non solo le strutture e la loro tenuta ma i materiali e la composizione stessa del cemento del Morandi (o dell’acciaio)? Potevano essere fatte valutazioni circa ipotesi di “risonanza”? Troppo astratto e costoso? Forse. Ma perché scartare l’ipotesi? Se fosse emerso (anche solo come ipotesi di ‘“scuola” e assai remota) il rischio di “risonanza critica” dei materiali del ponte avrebbe significato che il “progetto del ponte” conteneva un difetto, un errore di origine e il ponte andava chiuso.
Tutto troppo difficile e complicato? Ebbene: nelle centrali nucleari, nella cultura, ingegneria e fisica delle costruzioni nucleari questo è il cuore della gestione operativa di una centrale (è un caso che le fatalità per incidenti “catastrofici”, di tutte le 540 centrali nel mondo, in 70 anni non abbiano raggiunto il numero dei decessi del ponte Morandi?). In un manufatto nucleare sia il progetto ideativo e costruttivo che la gestione manutentiva devono osservare standard di procedure di risk assessment “in profondità”. Da cui l’industria di costruzioni e qualunque altra non hanno, neppure lontanamente, comparabilità.
La “probabilità” dell’errore di progetto, come di ogni altro fattore di criticità, è valutata, nel nucleare civile, fino al dettaglio millesimale. Niente può essere lasciato all’imprevisto (nei limiti umani di tale possibilita’, ovviamente. L’imprevisto è in natura). Una centrale nucleare ha, in base a queste analisi “in profondità” (che devono far parte del progetto iniziale e di stress di verifica ricorrenti) limiti di durata e di parametri di funzionalità, a fini di sicurezza. Fino all’esasperazione del dettaglio. Per questo sono così costose. Forse il cemento armato di Morandi aveva bisogno di verifiche di profondità ( con conseguenti limitazioni e chiusure). Dispiace dirlo: spettava allo Stato promuoverle e ad Autostrade attuarle. Ma è difficile che la verifica di uno stress da risonanza sia indicata nel testo della concessione. Un ponte non è trattato come una centrale nucleare (in termini di sicurezza dei materiali). E questo, forse, è un male.
Da tempo considero che proprio l’Italia, per le sue complessità orografiche, sismiche, fisiche, di composizione del sottosuolo, avrebbe bisogno di irrobustire il sapere costruttivo, l’ingegneria, la cultura tecnologica di tecniche, con conoscenze e tecniche di risk assessment attinte alla “cultura nucleare”. E invece: la cultura nucleare, la terza al mondo negli anni in cui Morandi, inconsapevole di essa ovviamente, progettava e realizzava il suo ponte “ardito”, la stiamo distruggendo (insieme ad altri “saperi” in cui eccellevamo negli anni di Morandi, dalla chimica all’informatica). Per malinteso ecologismo antiscientifico, romanticismo reazionario e pregiudizio antindustriale. I peggiori detrattori di questi “saperi” industriali, in cui eccellevamo, oggi sono al governo. Gli stessi, insieme ad ambientalisti antindustriali e a una sinistra codina che a Genova giudicavano la possibilità del crollo del ponte Morandi, una “favoletta”. Quel ponte è caduto, destino beffardo, proprio sul bastione della memoria nucleare italiana (una volta grande nel mondo): l’Ansaldo di Genova. Mai destino fu piu’ cinico e baro.
generazione ansiosa