Sono rimasti lì, nei primissimi giorni dopo il crollo, i camion e le auto che stavano passando sul viadotto Morandi e si sono fermati in tempo, chi a cento metri, chi a un passo dal disastro. LaPresse

Il fatale trovarsi su un ponte

Giuseppe Marcenaro

Luigi, Giorgio, Melissa e gli altri come doña Maria e Pepita nel romanzo (da un fatto vero) di Thornton Wilder

Venerdì 20 luglio 1714, mezzogiorno. Le liane che sostengono il più elegante ponte del Perù, senza alcun preavviso, si spezzano. Trascinando con sé cinque persone che lo stavano percorrendo, il ponte strapiomba in un abisso, nel cui cupo fondo scorre un impetuoso torrente. Il ponte che stava lungo la strada fra Lima e Cuzco, era protetto da san Luigi re di Francia, la cui chiesetta a lui dedicata sorgeva a una delle estremità del ponte, “che sembrava far parte delle cose che durano in eterno, non era pensabile che si spezzasse”. Quando avvenne, la catastrofe fu interpretata come un ammonimento divino, accettata con fatalistica rassegnazione, soprattutto da tal frate Ginepro che aveva assistito all’evento. Prima d’avviarsi sul ponte, non si fosse fermato per un imperscrutabile soffio di tempo, un attimo prima del crollo, avrebbe condiviso la sorte di cinque persone che, impietrito, assieme al ponte aveva visto precipitare nell’orrido.

     

Il 20 luglio 1714, il più elegante ponte del Perù strapiomba in un abisso, trascinando con sé cinque persone che lo stanno percorrendo

Quest’è l’antefatto, autenticamente storico, di un celebre romanzo – Il ponte di San Luis Rey – scritto da Thornton Wilder, pubblicato nel 1927. Un’opera per la quale l’autore ricevette il premio Pulitzer. Tradotto in italiano da Lauro De Bosis nel 1929, Indro Montanelli ne consigliava la lettura agli aspiranti giornalisti: considerava Il ponte di San Luis Rey “un’alta tecnica narrativa, esemplare per tutti gli scrittori… uno dei pochi veri capolavori di questo secolo, per ricostruire le varie vicende umane che avevano condotto tutte quelle vittime, sconosciute l’una all’altra, a trovarsi su quel ponte al momento di una catastrofe”.

 

In realtà il vero “autore” del libro e che a un tempo ne è il personaggio centrale attorno cui, l’animo in subbuglio, ruota l’angoscia del non capire il senso degli avvenimenti in cui si trovò, e che la vita gli impose, è frate Ginepro. Nella disperata ricerca di trovare una ragione alla rovina cui aveva assistito, s’era dedicato, in forma di ex-voto, a una serrata indagine sulle vite della persone travolte dal cedimento del ponte. Che cosa era rimasto di loro, soprattutto delle loro storie.

  

Ginepro, un monaco francescano, originario dell’Italia, si trovava a catechizzare la popolazione del Perù. Da anni si adoperava affinché la teologia venisse riconosciuta quale scienza esatta. E capitatogli, inspiegabilmente proprio a lui, d’assistere a una tragedia, non riusciva a darsi pace del perché proprio a quelle cinque persone, proprio a quelle, fosse toccato in sorte di transitare sul ponte al momento della rovina. Decise di ricostruire le loro vite. Voleva trovare un elemento comune, una traccia che determinasse il loro coinvolgimento nella sciagura, per lui un evento pianificato nel “laboratorio perfetto” di Dio, che doveva essere spiegato in relazione alle scelte compiute nella loro vita delle cinque vittime. Le lunghe e minuziose indagini avevano portato frate Ginepro a scoprire che la morte aveva colto i cinque “sacrificati” all’inizio di una nuova fase delle loro esistenze. Come se quelle vite fossero a una svolta.

  

Pubblicato nel 1927, “Il ponte di San Luis Rey” vince il Pulitzer. Montanelli ne consigliava la lettura agli aspiranti giornalisti

Il ponte di San Luis Rey è un groviglio di sensazioni e percezioni incrociate, un esercizio filosofico, anche un “trabocchetto” imposto a un personaggio – frate Ginepro – dal suo autore, Thornton Wilder, con una narrazione, un’opera letteraria, “inventata” su un fatto reale: un’opera che obbliga continuamente, pagina dopo pagina come il succedersi dei giorni, a entrare e uscire dalla finzione e dalla realtà. Le contraddizioni dell’esistenza e l’ostinato esercizio della dissimulazione pretendendo di imitare la realtà, inventano continuamente nuove dimensioni.

  

Frate Ginepro, nella sua indagine, scopre i nomi di chi il ponte aveva immolato. Ma chi erano queste cinque vittime “scelte” dalla sorte? Chi erano Doña Maria, duchessa di Montemayor, Pepita, Esteban, zio Pio, don Jaime? L’indagine su cinque vite che non esistono più fa perdere a Ginepro il senso della propria vita, nell’illusione, lui “il salvato”, di svelare l’assurdo entro cui si sente calato. Entro cui, oltre l’esercizio letterario, siamo sempre e comunque “imprigionati”.

 

Chi era in realtà doña Maria marquesa de Montemayor? Figlia di un negoziante di stoffe, aveva avuto un’infanzia infelice a causa di una inguardabile bruttezza, coniugata a una balbuzie che la madre non dimenticava mai di sottolineare con sarcasmo. Fino a ventisei anni aveva passato le sue giornate in amara e scontrosa solitudine, in lotta contro i pregiudizi di quel tempo, finché la madre non l’aveva obbligata a sposarsi con un nobile spagnolo sprezzante e carognesco. Doña Maria continuò a vivere isolata, salvo qualche saltuario incontro con il marito. Nacque una bambina a cui doña Maria si aggrappò d’idolatrico amore. La bimba, Clara, fredda come il padre, pare non accettasse lo smisurato amore della madre. In realtà doña Maria amava sua figlia non per la figlia in quanto tale ma per sé. L’amore la portò alla follia. Poi, passati anni infelici, la figlia fuggì e sposò un importante nobile spagnolo. Doña Maria cercò di mantenere vivo un rapporto scrivendo lettere alla figlia nella speranza di attirarne l’attenzione. E farla ritornare. Fu così che l’ostinazione la portò quasi spontaneamente a scrivere testi di una bellezza estrema. Più tardi. scoperti e apprezzati, quei lancinanti “messaggi” vergati per la figlia andarono ad arricchire il patrimonio letterario. Le sue opere divennero un punto di riferimento per le donne del Perù. Doña Maria sperò allora che attraverso la sua amara esperienza – la bruttezza fisica e la solitudine risultata dal rifiuto degli affetti – le donne potessero acquisire maggior consapevolezza di fronte ai loro problemi esistenziali: dovevano imparare a essere affascinanti e trovare un uomo che veramente si occupasse di loro. Questa sembrava essere la lezione di una donna disperata. In vecchiaia doña Maria riversò le proprie attenzioni su Pepita, un’orfanella diventata sua dama di compagnia, un orgoglio vitale. Anche amorosa consigliera, era stata Pepita a indurre una vecchia delusa della vita a tentare di riavvicinare la figlia. Aveva suggerito a doña Maria di scrivere “finalmente quella lettera” in cui si esprimeva la generosità di un affetto coltivato per tutta una vita e che non era mai riuscito a esprimersi. Spedita la missiva il giorno dopo, partirono per Lima. Doña Maria e Pepita sul ponte di san Luis Rey, a mezzogiorno, avevano un appuntamento con Esteban, zio Pio e il piccolo don Jaime. Tra loro sconosciuti.

 

E chi era in realtà l’orfanella diventata la dama di compagnia di doña Maria? Chi era Pepita, la cui giovinezza era stata impregnata di solitudine e sofferenza? E chi era Esteban? Esteban, fratello gemello di Manuel, con il quale aveva condiviso tutta la vita, felicità, lavoro, tristezze e anche l’amore? Amore che i due provavano all’unisono per Camila Perichole, la quale, per accogliere le loro attenzioni, pretendeva le fossero inviate delle lettere. Aspirava a quelle missive certa di ricevere delle autentiche prove, passabilmente degne di madame de Sévigné. Camila si aspettava “capolavori epistolari” giacché Esteban e Manuel erano stati istruiti nel celebrato convento di Madre Maria de Pilar fin dall’adolescenza.

  

Nella ricerca di una ragione alla rovina cui aveva assistito, un frate s’era dedicato a un’indagine sulla vita della persone travolte

Chi lo zio Pio? Figlio illegittimo di una buona casata castigliana, sveglio, creativo e con tutti i caratteri del giramondo, a dieci anni era fuggito per raggiungere Madrid. Dopo uno svariato numero di lavori, e dopo viaggi e dopo avventure, aveva conosciuto certa Micaela Villegas, una dodicenne che si guadagnava da vivere cantando nei caffè. La comprò, ne divenne il tutore, reinventandola come Camila Perichole, la chantosa più brava, appassionante e commovente senza eguali in quel tempo. Camila è di una attività frenetica, golosa di vita non smette mai di esibirsi. Il suo è un successo calmo, distaccato. Poi incontrò e si innamorò di don Andrés, il viceré del Perù, in esilio da dieci anni. il quale la presentò e la ammise nel mondo dell’alta società e dell’aristocrazia. Di Camila Perichole, ex Micaela Villegas, da parte dei raffinati erano apprezzate e ammirate le buone maniere, l’eleganza affinata dalle naturali vocazione di attrice. E mentre esteriormente godeva del successo, interiormente cresceva in lei una cupa insofferenza per il mondo dello spettacolo che le aveva consentito fama e notorietà. Era pervasa da un appassionato desiderio, quello di trovare la felicità diventando una gentildonna. A trent’anni lasciò il teatro e si sottrasse dagli “insegnamenti” di zio Pio. Generò con don Andrés un figlio, Jaime, il quale ereditò dal padre periodiche forti convulsioni. Il piccolo don Jaime crebbe esile ma con un vivace e manifesto desiderio di conoscere le cose del mondo, imparare i segreti della vita, i meccanismi della creatività. Aspirazioni soddisfatte dallo zio Pio che, come aveva fatto con la madre del ragazzo, si offrì di tenerlo con sé a Lima per un anno ed educarlo, visto che Camila, ammalatasi intanto di vaiolo, non avrebbe certo potuto accudirlo. Il piccolo accolse con entusiasmo la proposta di zio Pio e con lui si mise in viaggio. Venerdì 20 luglio 1714, a mezzogiorno, stavano entrambi percorrendo il ponte di San Luis Rey.

 

A questi “ignoti” e a padre Ginepro e a Thornton Wilder e al mezzogiorno del 20 luglio 1714 e al ponte peruviano non ho potuto evitare di pensare alle undici e trentacinque del mattino dello scorso martedì 14 agosto. In quell’attimo, sotto uno scrosciante temporale, crollava il ponte Morandi che scavalcava, sospeso per un chilometro, la valle genovese del Polcevera, un torrente inquieto, “specializzato” in alluvioni. E’ stato impossibile non andare con le mente a una umanità trascinata nel cedimento del ponte, ignara fin a quell’attimo, di trovarsi, come le cinque vittime del ponte di San Luis Rey, a un appuntamento tragico con la sorte.

 

Nel genovese gorgo infernale sono finite 43 vite e l’eco del disastro ha fatto immediatamente il giro del mondo. Chi erano queste quarantatré esistenze d’analogo destino, simile a quelle “biografate” da frate Ginepro? Chi erano Andrea, Matteo, Luigi, Giorgio, Melissa, Henry, Giovanni Battista, William, Juan Carlos, Alberto, Stella, Angela…? Assieme ad altri, felici della vita, lavoratori, vacanzieri (vista la stagione), angustiati dall’esistente… insomma un campionario del mondo che aspetta il proprio biografo, per scoprire i “segni” che in un rollerball temporale e casuale avevano appuntamento sul ponte che scavalcava una valle genovese.

 

Il tema che angustiò il frate è perenne. Qual è la perversa ragione che ha fatto trovare tutte quelle vite, allo stesso punto, nella stessa ora

Al di là del comprensibile sconcerto, di fronte all’inspiegabile, il più anonimo cittadino e il più noto personaggio hanno espresso emozioni e turbamenti. Intanto perché il crollo del ponte Morandi era avvenuto. V’erano state avvisaglie? Il ponte tremava quando vi si transitava? Il materiale con cui era stato costruito ormai deteriorato per tempo e usura? Il peso degli autotreni che a migliaia vi passavano sopra ogni giorno…? E così l’ardito ponte, un capolavoro di ingegneria, bello a vedersi, esteticamente celebrato dal 1967 quando trionfalmente era stato inaugurato, aveva concluso il suo “ciclo vitale”.

 

Come moltissimi ho percorso quel ponte decine di volte, in automobile. Non con paura in senso stretto, ma con una strana vaghezza: un sentor di vertigine, giacché l’impressione che ho sempre tratto su quell’ardito ponte, alto 45 metri, è stata quella di esser portato via, inghiottito dal paesaggio, che da quella strada aerea si godeva. E più d’una volta, con una punta di inquietudine, sorprendermi a pensare alla storia del ponte di San Luis Rey. Astrarmi almanaccando sul tormento di frate Ginepro che, come quanti oggi si chiedono la ragione del crollo del ponte Morandi, fallì il suo tentativo di capire. Non gli fu possibile, anche illusoriamente, scoprire la ragione per cui, per gli imperscrutabili grovigli della sorte, alcune esistenze, ignote tra di loro, si siano trovate nello stesso punto, alla medesima ora, nell’attimo in cui la struttura del mondo non era più in grado di controllare un suo elemento, sganciandolo e lasciandolo andare alla rovina. Ignote controfigure di frate Ginepro, in questo nostro tempo, con la curiosità alimentata dal dolore, si dedicheranno certo a indagare le vite delle vittime del ponte sul Polcevera. Chi fossero, donde venissero. Il tema che angustiò padre Ginepro è perenne. Quale è la perversa e imperscrutabile ragione che ha fatto trovare tutte quelle vite, allo stesso punto, nella stessa ora.

 

Nel silenzio che sussegue alle catastrofi, posatesi le polveri e svaniti i fumi, per quante testimonianze possiamo trovare quali dilettanti frate Ginepro, andiamo cercando ciò che è impossibile comprendere. L’unica cosa certa è che doña Maria e Pepita, Esteban, zio Pio e il piccolo don Jaime avevano un appuntamento. Il medesimo appuntamento che avevano Andrea, Matteo, Luigi, Giorgio, Melissa, Henry, Giovanni Battista, William, Juan Carlos, Alberto, Stella, Angela… e tutti gli altri. Sconosciuti tra loro avevano un appuntamento… Due appuntamenti remoti tra loro, assolutamente contigui. Su due ponti che non esistono più.