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Addio a Idina Gardini, vedova ricca, austera e in odor di santità

Michele Masneri

Si chiude l’ultima saga familiare che ha fatto sognare l’Italia

Roma. Nel venticinquesimo della morte di Raoul Gardini ci mancava la scomparsa di Idina, la moglie che da personaggio biblico ed epico aveva scelto di essere “una Gardini” e non “una Ferruzzi”. Son passati venticinque anni e i più piccini non sapranno di che si parla, però la saga Gardini è stata l’ultima a far sognare il Paese, negli anni in cui andavano in tv “Dallas” e “Dynasty” e noi si aveva lì una soap imprenditoriale perfetta, anche fuori dai soliti “set”, dalla Torino mortaccina degli Agnelli e dalla Milano berlusconiana. La location romagnola aggiungeva un tocco “pop” a tutta la storia.

 

Perito agrario, vasto possidente, dotato di orgoglio agricolo, un Don Draper con accento, Raul Gardini era entrato alla Ferruzzi che era una specie di Apple delle granaglie; il futuro suocero Serafino Ferruzzi era the king of soy, e quando entrava alla borsa di Chicago ci si alzava in piedi; era morto, per aggiungere leggenda, precipitando il 10 settembre 1979 vicino all’aeroporto di Forlì col suo Learjet 36 targato I-AIFA, (con le iniziali dei suoi figli Arturo, Idina, Franca e Alessandra). Nel 1987 la salma è stata trafugata dal cimitero di Ravenna, gli eredi non hanno mai pagato alcun riscatto, non è mai stata restituita.

 

Raoul ne sposa la figlia, Idina, e ne fa la prima signora di Ravenna e poi della chimica italiana. Lui prende la sua mano e l’azienda, trasformandola in un colosso diverso, portandola a comprare la Montedison e a scalare i salotti buoni (Standa, Messaggero, assicurazioni, vicinanza con Mediobanca). Il progetto gardiniano – non amava la decrescita felice – era di fondere la Montedison con l’Eni, creando una trimurti chimica-energetica. A fine anni Ottanta il potere dei Gardini-Ferruzzi era ancora intatto, il 1992 con “la madre di tutte le tangenti” sembrava molto lontano; Raul regnava sull’Italia da palazzo Belgioioso a Milano, in faccia alla casa del Manzoni, solcava i mari sul suo veliero Moro, dando molto fastidio all’altro riccioluto, Gianni Agnelli (c’è una foto che ritrae Gardini con Agnelli, sono vestiti allo stesso modo, polo blu e stessi capelli bianchi, ma Agnelli sembra un vecchio). Si disse che nelle disgrazie di Gardini questa invidia avesse contato. Nel 1987 Fortune addirittura metteva al primo posto proprio il romagnolo col suo patrimonio di 2.470 miliardi di lire. Segue Silvio Berlusconi, Gianni Agnelli è soltanto al quarto posto.

 

Gardini aveva tutta una narrazione, però diversa: dalla calcistica berlusconiana e la giornalistica debenedettiana (i tre, Gardini, Berlusconi e De Benedetti, erano la speranza degli anni Ottanta di cambiare il capitalismo italiano allora definito “la foresta pietrificata”). Gardini era uomo d’acqua e di campagna. Coi suoi velieri vinceva gli Oceani e ormeggiava a Marina di Ravenna, disintermediando la Costa Smeralda: soprattutto gli piaceva andare a caccia, la “caccia in botte”, chiuso fin dall’ alba a galleggiare nella laguna veneta aspettando le folaghe. Molto hemingwayano, girava per i canali di Venezia dove aveva comprato la jellatissima Cà Dario che uccideva tutti i suoi proprietari (anche lui). Erano gli anni in cui Christian De Sica si fingeva “Cristiano Gardini”, un immaginario figlio di Raul, in un ennesimo remake del conte Max, nel film non leggendario vanziniano Fratelli d’Italia (celebre per una battuta pre-Merkel: “Di fronte al marco pesante m’arendo”).

 

E poi, anche qui unico nello storytelling, con moglie in odore di santità: Idina, religiosissima, austera, con allure secentesca e mantiglia nera, si fece addirittura suora laica. Il sistema come è noto reagì (male) all’ambizione gardiniana, Gardini si suicidò il 23 luglio del 1993, mentre aspettava di essere arrestato dai magistrati di Milano, in faccia alla casa dell’autore della Colonna Infame. Idina seguì le orme della madre, anche lei terziaria carmelitana. Tutti grandi amici di monsignor Tonini, confessore di casa, sull’altare e nella polvere. Sembrava una Fabiola del Belgio romagnola. Tre messe al giorno venivano recitate, ogni giorno, da quel luglio 1993, in tre chiese di Ravenna, alla memoria di Raul. “Vita di preghiera, silenzio e innamoramento per la vergine”, secondo quanto prescrive la Regola. A Ravenna girava la battuta: si è fatta terziaria carmelitana perché a differenza dei francescani non serve il voto di povertà. Ma era una battuta, appunto. “Esci da questa casa ogni mattina come se fossi scapolo e non ti preoccupare di niente perché alla casa penso io”, diceva, ai tempi d’oro, l’altra regola. Non si era mai convinta del suicidio del marito.

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