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Il capo di Fincantieri ci spiega il piano per ricostruire ponte Morandi

Annalisa Chirico

“I tempi decisionali sono lenti ma noi siamo pronti. Il bando? L’Europa concede deroghe”. Parla Giuseppe Bono

Roma. Il clima di incertezza è sotto gli occhi di tutti. I tempi della politica non dipendono da noi, non ci resta che aspettare”, Giuseppe Bono è il numero uno di Fincantieri, azienda leader nella cantieristica navale che, negli auspici del governo, dovrebbe occuparsi della ricostruzione del ponte di Genova. Quand’era bambino, voleva farsi prete, poi la mamma lo dissuase giacché, essendo l’unico figlio maschio, orfano di padre a soli quattro anni, toccava a lui “perpetuare il cognome”. Oggi questo “manager umanista”, appassionato di classici e madonne, di anni ne ha settantaquattro, della Calabria profonda che gli diede i natali conserva una leggera cadenza, dal 2002 è capo indiscusso di Fincantieri, società che ha portato in Borsa al pari di Finmeccanica di cui pure è stato amministratore delegato, per non parlare del ventennio in Efim, l’ente delle partecipazioni statali. A distanza di oltre un mese dal crollo, Lega e Cinque stelle non si mettono d'accordo sul nome del commissario ad hoc, sui soggetti coinvolti e sui tempi dell’impresa.

 

Dottor Bono, Fincantieri sarà impegnata nel progetto? “So ben poco, mi tengo informato sugli sviluppi ma mi pare che i tempi decisionali siano abbastanza lenti. A Genova, alla presentazione del progetto di Renzo Piano, ho incontrato Giovanni Castellucci (ad di Atlantia, ndr), il presidente Toti e il sindaco Bucci, siamo allineati sul da farsi, attendiamo la decisione politica. Fincantieri sarebbe orgogliosa di contribuire alla ricostruzione, a Genova impieghiamo già 10 mila persone tra lavoratori diretti e indiretti. Se lo merita la città, e se lo merita l’Italia”.

 

Ponti e navi sono settori speculari? “In verità, l’idea di Piano richiama lo scheletro di un’imbarcazione. La nostra Fincantieri Infrastructure, specializzata nelle strutture in acciaio, ha tutte le competenze necessarie. Navi e industria dei ponti non sono così distanti, è carpenteria pesante. Facciamo questo lavoro dal 1910, in pochi sanno che abbiamo realizzato un ponte in acciaio in Argentina, ne stiamo progettando uno sul Ticino”.

 

Fincantieri è una società quotata in borsa, con una capitalizzazione di circa 2,4 miliardi di euro e un azionista pubblico di maggioranza (il 71,6 percento è controllato da Fintecna). Secondo le sue previsioni, la ricostruzione richiederà un bando o un affidamento diretto? “Mi pone una domanda su un fatto politico”.

 

Esiste una normativa europea da rispettare. “Nel caso di appalti pubblici, considerata l’eccezionalità della vicenda, si potrebbe derogare per procedere in modo più spedito”.

 

La revoca della concessione ad Autostrade, annunciata dal governo, costerebbe 20 miliardi di euro, quasi il valore della manovra finanziaria, e richiederebbe non meno di cinque mesi. “Io sono contro i monopoli, pubblici o privati che siano; preferisco combattere nel mercato mondiale. In presenza di un monopolio naturale, bisogna accordarsi sul modello da applicare”.

 

Da oltre cinquant’anni, lei è manager di aziende pubbliche. La convince il “riflusso statalista” che sembra sedurre diversi esponenti dell'esecutivo? “La lotta alla burocrazia, di per sé condivisibile, ha determinato un depauperamento delle competenze all'interno dei ministeri. Lo stato si è impoverito di conoscenze e profili indispensabili per esercitare efficacemente le funzioni di monitoraggio e controllo. Va bene affidare al privato, in molti casi è capace di fornire un servizio di qualità superiore, ma non devi abdicare al ruolo di controllore. Io sono perché il governo governi, il paese dev'essere governato”.

  

Lei ha solcato i mari della Prima e della Seconda Repubblica: i maliziosi la accusano di aver usato i partiti come taxi per essere nominato ai vertici delle aziende pubbliche. “I maliziosi, appunto. Se lavori nelle aziende di stato, devi convivere con la politica che mi ha promosso in ruoli di responsabilità, è vero, ma mi ha anche licenziato. Io ho cercato di rapportarmi sempre alle istituzioni più che ai partiti. Sono giunto in Fincantieri nel 2002 quando la società faceva due miliardi di ricavi, quest’anno supereremo i cinque e mezzo. Impieghiamo direttamente oltre ottomila persone cui se ne aggiungono cinquantamila nell'indotto. Negli ultimi tre anni abbiamo realizzato l’ottanta percento dei nostri acquisti in Italia spendendo sul territorio nazionale otto miliardi e mezzo di euro presso un parco fornitori di tremila imprese, perlopiù piccole e medie. Non sono mai stato implicato in un’inchiesta giudiziaria, qualcosa di buono avrò fatto”.

 

Lei ha sempre votato socialista, nel senso di Psi, ed è nota la sua amicizia con Giuliano Amato. Funziona la convivenza con i gialloverdi al governo? “Alcune uscite sono improvvide. Un’azienda come la nostra, per esempio, pianifica commesse a dieci anni, e può farlo nella misura in cui esiste una moneta stabile come l’euro; anche solo vagheggiare l’ipotesi di uscita è da pazzi. Ciò detto, dobbiamo dare loro il tempo di imparare, adesso ogni giudizio è affrettato. Io rispetto il voto degli italiani, Giuseppe Conte è il mio presidente del Consiglio. Ricordo quando nel '94 proprio Amato affermava: per quanto distante da me e dalla mia storia, Silvio Berlusconi è il premier e io lo rispetto. Le istituzioni vengono prima. Quanto al Psi, se nella cabina elettorale trovassi il garofano rosso sulla scheda, lo voterei ancora”.

 

Lei coltiva un buon rapporto con la Lega sin dai tempi di Umberto Bossi, anzi il famigerato Francesco Belsito fu nominato nel cda dell’azienda. “Me lo sono ritrovato qui, i nomi dei consiglieri li decide il Ministero dell'economia, all'epoca c’era Giulio Tremonti e lo stesso Bossi era al governo. Da noi però si è sempre comportato correttamente”.

 

In tempi di trentenni al potere e rottamazioni precoci, lei è il capoazienda più longevo di tutta l’industria di stato. Usciti di scena gli Scaroni e i Conti, i Moretti e i Sarmi, nessun manager pubblico vanta un’anzianità di servizio pari alla sua. “Sono entrato per la prima volta in un’officina Fiat a diciotto anni. Se mi guardo indietro, sono soddisfatto: la mia felicità è il lavoro”.

 

Ozio creativo e decrescita sono la nouvelle vague contemporanea. “Tutti hanno bisogno di mangiare, e senza lavoro si soffre la fame. Mi preoccuperei piuttosto di come incentivare la crescita che non si crea per decreto. Serve un'opera di semplificazione normativa secondo le massime degli antichi romani: honeste vivere et neminem ledere”.

 

Nel 2016, tra le polemiche, lei si è aumentato lo stipendio fisso di quasi il 30 percento. “Nonostante quell’aumento, guadagno meno di ogni altro manager pubblico, e quando lascerò l'azienda non percepirò alcuna buonuscita”. A proposito, il suo mandato scade il prossimo anno. “Le nomine dei vertici spettano al governo, io mi riserverò qualche valutazione. Alla mia età ho ancora mille cose da fare”.

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