Zanza non ha ucciso nessuno e per i suoi funerali non pretendeva cattedrali
A Rimini un prete nega le esequie in chiesa del playboy. Ci vuole la pazienza di Giobbe
Ci vuole la pazienza di Giobbe. Nella mia vita di devoto ho sopportato i funerali in pompa magna, con Elton John ai cori, di Gianni Versace nel Duomo di Milano, ho sopportato le esequie congiunte dei due fidanzati omosessuali di Arzignano, ho sopportato il “chi sono io per giudicare?” pronunciato da un Papa che aveva preso davanti a Cristo l’impegno di sciogliere e legare, e dopo tutta questa manica larga, larghissima, sopporterò anche l’irrigidimento improvviso nei confronti del campione dell’eterosessualità Maurizio Zanfanti in arte Zanza, a cui un parroco di Rimini ha negato i funerali. Mica in Duomo, in una chiesa di periferia nei cui pressi abitava e dove da ragazzino aveva fatto prima comunione e cresima. Grazie a Dio i funerali si faranno comunque, però al cimitero, dove tristezza si aggiungerà a tristezza.
Ma ci vuole pazienza, dicevo. Magari il prete sapeva del defunto qualcosa che io non so. Io, del relativamente giovane don Raffaele Masi, so poco. Mi dicono che sia tatuato, e se fosse vero sarebbe come minimo contraddittorio perché nella stessa Bibbia in cui Re Salomone si diverte con mille donne mille (uno Zanza ante litteram!) i tatuaggi sono proibiti in lungo e in largo, dal Vecchio al Nuovo Testamento. Inoltre leggo che è molto attento al “popolo dei poveri” e questo è contraddittorio con l’aver scaricato il povero Zanfanti. Povero non solo in quanto morto. Un amico di Rimini che lo conosceva da suppergiù quarant’anni mi racconta che ai tempi d’oro il nostro eroe consumava le sue conquiste su una 128 coupé gialla con strisce nere parcheggiata dietro un piccolo distributore di benzina: “Quelli che da noi erano chiamati birri, oppure imbarcatori, non erano i playboy delle riviste perché la loro abilità non aveva bisogno di macchine costose o dimostrazione di potere o ricchezze”. Il modello non era quello di un Gunter Sachs, di un Gianni Agnelli, di un Porfirio Rubirosa, di seduttori muniti di fuoriserie, motoscafi, elicotteri. Mauro, come lo chiamavano gli intimi, compresa la ragazza dell’ultima notte, era una persona semplice, un figlio di pescivendoli che non aveva studiato (eppure lo svedese lo aveva imparato…) e non aveva nemmeno fatto i soldi. Non era un gigolò e negli ultimi tempi non se la passava troppo bene. Per capire tante cose basta guardare su YouTube una breve videointervista del 2011, ambientata nel bar Brigantino che gestiva nella frazione pochissimo chic di Miramare. I ricchi che a don Masi non piacciono non ci mettevano piede di sicuro. Un altro amico lo ha incontrato un paio di anni fa, notando l’inconfondibile odore di pesce perché era tornato a lavorare in pescheria, zona Lagomaggio ossia Regina Pacis ossia don Raffaele Masi, appunto, aiutando la madre ottantenne a cui era legatissimo e che ora lo piange sconsolata. Ci vuole pazienza e io cerco di averne ma di sicuro non la pretendo da questa vecchia signora che oggi ha tutto il diritto di lamentarsi con Dio, sopravvivere a un figlio è terribile, e con la Chiesa di Dio che sembra addirittura infierire. Ecco, avessi avuto dei dubbi sull’opportunità di questi funerali avrei pensato a questa donna, avrei cercato di non aggiungere dolore al dolore.
Ci vuole pazienza e bisogna cercare di immedesimarsi anche in questo prete che, per quanto si dice, tatuato, avrà pensato di far bene. In effetti le esequie rischiavano di diventare problematiche ovvero mediatiche. Io ero in San Petronio al funerale di Lucio Dalla, bolognese cattolicissimo e devotissimo e importantissimo che la basilica se la meritava certamente. Però i troppi minuti in cui Marco Alemanno pianse l’amico dal pulpito furono terribili. I funerali vip vanno gestiti. I presenti non aspettano altro, d’accordo, ma spesso sono gli stessi preti a chiamare gli applausi. E per quanto riguarda gli sproloqui dal pulpito basta evitare le testimonianze di amici e parenti ed ecco che la parola resta al Signore della vita e della morte.
Infine ricordo al vescovo di Rimini, il capo di don Masi, che la sua cattedrale è ancor oggi assurdamente intitolata al pessimo Sigismondo Malatesta, colui che (parole di Papa Pio II) “fu dissoluto al punto di violentare figlie e generi, violò vergini consacrate a Dio, uccise fanciulle e fanciulli che si ribellarono a lui”. Zanza non ha mai ucciso nessuno, e non pretendeva cattedrali.
I guardiani del bene presunto