Nell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo, là dove c’era la “Natività” di Caravaggio, dal dicembre 2015 è esposta una replica realizzata dallo studio tecnologico Factum Arte di Madrid (foto LaPresse)

Sei pentiti, nessuna verità

Riccardo Lo Verso

A Palermo nel ’69 il furto della “Natività” di Caravaggio. Ripartite le indagini, ma con un approccio diverso

Lo cercano, senza successo, da quasi cinquant’anni. Da quando in un giorno piovoso di ottobre del 1969 il dipinto di Caravaggio fu rubato in un oratorio della vecchia Palermo. Da allora tante piste e tante bugie.

 

Perché illudersi, d’altra parte, che le indagini sul furto della “Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi” fossero immuni dai guasti di una giustizia in balia del pentitismo? Infatti, non è accaduto: sei pentiti hanno raccontato altrettante verità diverse. Solo uno fra i collaboratori di giustizia ha ragione. O forse nessuno. Di certo i loro racconti si escludono a vicenda. Esposto ai summit di mafia, nascosto dentro una cassa di ferro sottoterra, bruciato, mangiato dai topi, venduto integro o a pezzi: che fine ha fatto il Caravaggio dell’Oratorio di San Lorenzo alla Kalsa?

 

Esposto ai summit di mafia, nascosto dentro una cassa di ferro sottoterra, bruciato, mangiato dai topi, venduto integro o a pezzi

Da qualunque angolazione la si guardi la storia del dipinto rubato è una storia di mafia. In principio fu Francesco Marino Mannoia, uno con la patente da collaboratore in tasca, a spiegare a Giovanni Falcone che non valeva la pena perdere tempo per cercare un quadro che non esisteva più. Bruciato e le ceneri disperse nel fiume Oreto che attraversa la città, sporcandola con le sue acque luride. Com’era ricco di particolari il suo racconto. Un milanese era disposto a pagarlo, subito dopo il furto, cento milioni di lire. Si presentarono all’appuntamento “tuttavia – raccontava Mannoia – quando lo srotolammo per farlo visionare, appena illuminato l’ambiente per poterlo meglio guardare, il personaggio andò in escandescenza scoppiando in un pianto a dirotto. Ci diede degli assassini ed altri insulti, tant’è che visto il suo comportamento aggressivo, ma contestualmente pietoso, ci parve come un povero pazzo. In effetti il quadro appariva particolarmente danneggiato, in quanto squamato e mancavano dei pezzi”.

 

A quel punto il boss Pietro Vernengo ebbe “paura che il milanese per vendetta avesse potuto inviare la polizia… io e gli altri distruggemmo il quadro, tagliandolo a pezzi con dei coltelli e dandogli fuoco cospargendolo di benzina nelle immediate vicinanze del fiume Oreto”. Si ammazzava per molto meno di un quadro in quegli anni. La mafia degli orrori poteva avere paura della polizia? Strano, strano davvero.

 

Nel 2017 i carabinieri tornano da Mannoia. Sono convinti, alla luce di altre indagini, che trent’anni prima ha mentito. E lui lo ammette: “Non mi andava di andare avanti in tutte queste situazioni e cose… per cui io ho detto che il quadro è stato bruciato… andato distrutto… siccome ero stressato dalle situazioni… avevano ammazzato i miei familiari… con Falcone notte e giorno… non si stancava mai Falcone. Si è presentato un’altra personalità, un colonnello… e gli ho detto: l’ho bruciato io personalmente, per non essere più disturbato”. Chi mente una volta, può farlo altre mille. Perché credere a Mannoia?

 

Sempre nel 2017 nelle indagini è comparso un altro pentito. Mica uno nuovo, ma Gaetano Grado, killer di cento omicidi, che non ricorda neppure i nomi delle persone che ha ammazzato. Tre decenni di indagini hanno consentito agli investigatori di individuare in lui l’uomo giusto per avere notizie sulla “Natività”. Non si sbagliavano. Fu Gaetano Badalamenti, boss di Cinisi, mandante dell’omicidio di Peppino Impastato, la mente criminale dei traffici internazionali di droga, ricostruisce Grado, a chiedergli informazioni su “u Caravaggiu”. Detto, fatto. Grado tornò con le notizie sul dipinto, che era finito in mano a Stefano Bontade, il “principe di Villagrazia” che dominava sulla città prima che dalle montagne scendessero quei peri ’ncritati dei corleonesi di Totò Riina. Organizzarono un incontro con un mercante svizzero: “In pratica questo vecchio gli dice: ‘Lo compro io, però sappiate che non si può vendere perché è di un valore inestimabile’. Gaetano Badalamenti dice: ‘E che te ne fai?’. ‘Lo divido’. ‘Ma come lo dividi?’. ‘Lo taglio. Dipende da quanti acquirenti trovo’”.

 

L’aria malsana che si respirava a Palermo cinquant’anni fa. La stessa che ammorbava Brancaccio il giorno in cui uccisero don Puglisi

Non era solo un mercante, ma un appassionato che chiese “per favore, fatemelo guardare”. Guardava il quadro e piangeva, tanto da meritarsi gli sberleffi di Badalamenti. Al boss interessavano i soldi, la bellezza non era nelle sue corde. Il quadro fu venduto, dunque.

 

E’ davvero andata così? Grado conosce dettagli che non poteva sapere perché non sono contenuti in atti giudiziari. E’ un ottimo punto di partenza per le nuove indagini. Nella marcia indietro di Mannoia non trovano posto né don Tano Badalamenti né la pista svizzera. Il pentito che aveva messo la pietra tombale sulle ricerche si è detto convinto che il quadro sia nascosto da qualche parte in una stalla di Palermo. Per scrupolo i carabinieri hanno eseguito dei sopralluoghi. Manco a dirlo, esito negativo. Infine, Marino Mannoia ha sgombrato il campo dalle descrizioni folcloristiche, da “tutte queste leggende metropolitane che il quadro veniva esposto dalla commissione di cosa nostra nei meeting… tutte queste buffonate. Non esistono queste cose. Cosa nostra è una delle organizzazioni più serie che esistano sul pianeta”.

 

Se l’è presa con un altro pentito, Vincenzo Calcara, secondo cui il Caravaggio rubato veniva esposto nei summit di mafia. Una manifestazione della potenza di Cosa nostra. Per la cronaca Calcara è stato il braccio destro di Francesco Messina Denaro, il padre di Matteo. E chi se non l’ultimo dei padrini latitanti poteva irrompere nell’affaire Caravaggio? “Sono certo che lo abbia preso lui”, ha sentenziato Calcara.

 

Se il quadro, come dice Grado, è stato venduto in Svizzera, crolla pure la tesi di un altro pezzo grosso del pentitismo, Giovanni Brusca. A dire del boia di San Giuseppe Jato la tela era stata offerta dai corleonesi che volevano barattarne la restituzione in cambio di un alleggerimento del 41 bis. Eppure nel processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia non se n’è parlato. Quale migliore occasione del patto criminale a cavallo delle stragi per allettare i traditori della Repubblica con il dipinto? Non è andata così, anche perché Grado colloca la partenza per la Svizzera a ridosso del furto.

 

Il 1999 è la data in cui Vincenzo La Piana, altro pentito, ha svelato ai carabinieri di avere “visto la tela senza cornice intorno al 1978, 1979 nella villa in contrada Sant’Onofrio, dove Alberti aveva allestito una raffineria di eroina che fu poi scoperta dalla polizia”. Non era un racconto de relato. Il quadro era nelle mani dello zio, Gerlando Alberti, storico boss della mafia palermitana, soprannominato “u Paccarè”, l’imperturbabile. La Piana aveva riconosciuto il dipinto nella fotografia che gli era stata mostrata durante l’interrogatorio. E aveva offerto un nuovo spunto investigativo. In quel periodo correva la voce che il boss di “Porta Nuova” lo avesse ricevuto, forse dietro il pagamento di una somma di denaro, da Saro Riccobono di San Lorenzo. Anche lui sapeva che di mezzo c’era Stefano Bontade. Il boss di Villagrazia era interessato al dipinto, ma era stato preceduto da Alberti che glielo aveva quasi soffiato. La “Natività” era custodita dentro una cassa, nascosta sotto terra, assieme ad un mucchio di dollari ed eroina raffinata. “Proprio per questo – riferiva La Piana – la cassa venne spesso aperta e rimessa sotto terra”. Ed è nella villa descritta da La Piana che i poliziotti fecero irruzione il 26 agosto 1980. Alberti fu sorpreso insieme con alcuni marsigliesi. Quel giorno di agosto i poliziotti sarebbero stati vicini come non mai alla “Natività” del Caravaggio. Non la trovarono, però. Gli sfuggì per un soffio. A giudicare dalle parole di La Piana forse per colpa di qualche agente non troppo fedele.

 

Da qualunque angolazione la si guardi, quella del dipinto rubato è una storia di mafia. Ne parlano anche Brusca, Mannoia, Spatuzza

Uno degli ultimi a raccontare la sua verità sul quadro è stato Gaspare Spatuzza. La tela sarebbe finita in pasto ai porci e rosicchiata dai topi in una stalla di Santa Maria di Gesù. E così per disfarsi di un quadro senza più alcun valore lo avrebbero bruciato. Ci risiamo, rispuntano le fiamme. Il killer di Brancaccio disse di averlo saputo da Filippo Graviano nel carcere di Tolmezzo intorno al 1999, ma il quadro era stato distrutto negli anni Ottanta.

 

Spatuzza è il killer di Don pino Puglisi. ‘Padre, questa è una rapina”, disse al sacerdote il giorno che andò ad ammazzarlo. Che volgare bugia. Gli spararono un colpo alla nuca, un istante dopo che don Pino Puglisi, sorridente, pronunciò le sue ultime parole: “Lo avevo capito, vi stavo aspettando”.

  

Non era una rapina, ma un omicidio. I killer recitarono la parte fino in fondo. Strapparono il borsello al sacerdote di Brancaccio che curava le anime. Quei soldi, però, erano maledetti. Li investirono al Lotto ed ebbero pure la fortuna di vincere: “Nessuno si poteva impossessare dei soldi. Che cosa dovevamo fare? Abbiamo deciso di giocarli al Lotto, poi la vincita l’abbiamo suddivisa”.

  

Nella requisitoria del processo in cui si decise la condanna degli assassini l’allora pubblico ministero Lorenzo Matassa annotò la “singolare assonanza con ciò che vi è scritto nel Vangelo secondo Giovanni dopo la crocifissione di Nostro Signore Gesù (Vangelo 19, 24): ‘Si sono divisi tra loro le mie vesti’”. Il borsello, come le vesti. Ma questo Gaspare Spatuzza non poteva saperlo.

   

Qualche anno dopo, nel 2000, il killer di Brancaccio decise di pentirsi. Lo fece, così raccontò, dopo un sofferto percorso di fede. E ammise innanzitutto le bugie dette su Pino Puglisi. Poi, ne smascherò altre di bugie, quelle di altri pentiti, sulla strage di via D’Amelio. Nella ricostruzione dei finti collaboratori di giustizia, Vincenzo Scarantino e soci, mancavano i boss di Brancaccio. La mafia decideva di fare saltare in aria Paolo Borsellino e i fratelli Graviano nulla sapevano. Non poteva reggere e infatti non ha retto. E’ stato Spatuzza a cambiare il corso dei processi e della storia. La giustizia ha avuto bisogno, ancora una volta, dei pentiti.

 

Strumento insostituibile, è vero, ma anche abusato. La giustizia ha finito per dipendere, per una lunga stagione, dai pentiti, se non addirittura ritrovarsi in balia di essi. E’ accaduto anche nella storia del Caravaggio rubato a Palermo. Una ferita datata 1969 e mai rimarginata. E’ in nome di don Pino Puglisi che il Vaticano, stimolato dalla Commissione parlamentare antimafia, ha deciso che è giunto il momento di impegnarsi nella ricerca del quadro trafugato quasi cinquant’anni fa.

 

Ora si sta ripulendo la storia dalle sovrastrutture e dal mito che si sono sedimentati nel tempo. I pentiti vengono dopo l’indagine

La mafia non uccide solo gli uomini, ma pure la bellezza. Per ricordare il sacrificio del beato Puglisi Papa Francesco è stato in visita a Palermo nel venticinquesimo anniversario dell’omicidio del sacerdote. C’è un dicastero in Vaticano, guidato dal cardinale Peter Turkson, per il “Servizio dello sviluppo umano integrale”, che ha dato vita a una task force denominata “Michelangelo for justice”. L’intento, si legge nel documento programmatico, è ribadire l’opposizione alle mafie da parte della chiesa, secondo l’esempio del beato Giuseppe Puglisi, e porre la “Natività con i santi Lorenzo e Francesco” al centro del dibattito internazionale.

 

Se lo sviluppo vuole davvero essere “integrale” non può prescindere dalla cultura. Ecco il parallelismo fra la tragica sorte di don Pino Puglisi e il furto della “Natività” di Caravaggio su cui si fonda l’impegno del Vaticano. Il primo è l’esempio di un martirio in carne e ossa, il furto è la morte della cultura assassinata dalla mafia. Il sacrificio di Puglisi trascende la dimensione terrena. Vive nell’impegno di chi alimenta il suo esempio nei quartieri di una città malata. Per il quadro è diverso. Difficile, anche se non impossibile, andare oltre la materialità della tela e dei colori se tela e colori non ci sono più. La bellezza del dipinto è innanzitutto esteriore. Sono gli occhi che devono vedere.

 

E’ davvero tombale la pietra che la mafia ha posato sulla tela di Caravaggio facendola sparire? Le indagini sono ripartite. Si sono attivati la Commissione parlamentare antimafia, i carabinieri del Nucleo tutela patrimonio artistico di Roma, che per la verità mai si erano fermati, e la Procura di Palermo che ha riaperto il caso. E’ cambiato l’approccio. Si sta ripulendo la storia dalle sovrastrutture e dal mito che si sono sedimentati nel tempo. La sparizione della “Natività” è innanzitutto un furto, e come tale va trattato. C’è qualcuno che ha rubato il dipinto ed è sull’autore del furto che ci si deve concentrare. I pentiti vengono dopo. Le loro dichiarazioni servono a riscontrare fatti già acquisiti. Ecco perché ci sono davvero delle speranze di recuperare la preziosa tela. Nonostante siano passati tanti anni alcuni protagonisti di quella stagione sono ancora vivi. Le indagini provano a non finire in balia dei pentiti, delle loro dichiarazioni, malsane come l’aria che si respirava a Palermo cinquant’anni fa. La stessa aria che ammorbava Brancaccio il giorno in cui ammazzarono don Pino Puglisi, simulando una rapina. Era una volgare bugia. Una delle tante.

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