“Ascoltate l'uomo comune se volete salvare il capitalismo”. Parla Nassim Taleb
Migranti e governance, secondo l’autore di “Rischiare grosso”
Roma. Come mai è qui? “Sono a Milano per il cibo: mi piacciono l’ossobuco e le linguine al nero di seppia”, risponde Nassim Taleb in ottimo italiano, prendendo a discutere delle bellezze del nostro paese e delle tradizioni greche della Puglia, ma senza avventurarsi nella nostra attualità politica. Eppure uno dei temi centrali di “Rischiare grosso. L’importanza di metterci la faccia nella vita di tutti i giorni” (il Saggiatore), il valore della saggezza comune rispetto alla conoscenza degli esperti, è rilevante per comprendere l’origine di un governo come il nostro, per il quale la conoscenza tecnica, economica, scientifica sembra quasi avere uno stigma negativo. “In Italia, ma non solo, è in atto una ribellione contro l’establishment. Le persone avvertono problemi che a loro avviso i burocrati non vedono. Prendete l’immigrazione. Se il tasso d’immigrazione è troppo alto finisce che quella che un tempo era la maggioranza diventa minoranza. Le persone lo capiscono e non per questo meritano che le si chiami razziste: amano gli stranieri, quello che non amano è il sentirsi spiazzate. La verità è che l’universalismo è in bancarotta”. Cosa intende per “universalismo”? Risponde con una domanda: “Secondo voi è razzismo trattare con più riguardo un familiare rispetto a un uomo che passa per la strada? Il punto è: il sistema non funziona se non c’è alcuna relazione con le persone che dobbiamo proteggere. Funziona se ci sono gruppi di persone che cooperano, non una mescolanza forzata”.
Eppure in Italia la percentuale di stranieri non è poi così alta. Si parla dell’8,5 per cento, di cui circa la metà europei. Cosa succede se il risentimento verso gli stranieri si basa su una percezione distorta della realtà? “Quel risentimento può essere comunque giustificato. Per chi ha visto gli immigrati aumentare di numero è naturale pensare che aumenteranno ancora, mettendo i nativi in minoranza”. Ma non c’è il rischio che regole più restrittive riducano lo spazio per l’immigrazione virtuosa, di chi viene a lavorare per un periodo limitato per poi tornare dalla propria famiglia arricchito? Non si incentiva così l’immigrazione illegale, che è quella che vogliamo evitare? “Conosco molti iraniani che hanno fatto esattamente così, persone che meritano di andare dove vogliono, perché hanno l’etica del migrare. Se mi lasci casa per il weekend io te la restituisco in condizioni migliori di come l’ho trovata. Ma se l’immigrato viene da un paese dove vige la sharia, cercherà di imporla nel paese di destinazione. Insomma, l’unico modo che avete per risolvere il vostro problema è entrare nella testa dell’italiano medio, seduto al bar mentre beve il suo espresso o sorseggia il suo prosecco. Non siate normativi, siate empirici”.
E’ uno dei temi ricorrenti del libro: la saggezza dell’uomo della strada è spesso più affidabile delle indicazioni dei cosiddetti esperti. “E lasciate che vi spieghi cosa intendo per esperti. L’idraulico, il dentista, il barista che fa il caffè: nel loro campo sono senza dubbio degli esperti. Ma ci sono altri che si comportano da esperti senza esserlo. In “Rischiare grosso” spiego qual è la regola: se a valutarti sono anzitutto i tuoi pari, allora non sei un esperto. Sei un esperto solo se, cercando di sopravvivere sul mercato, paghi le conseguenze dei tuoi errori”.
Quella degli elettori è una delle categorie che non corre rischi e sceglie sulla base di incentivi distorti. Tutto il processo democratico e il meccanismo di redistribuzione poggiano sull’assunto implicito che chi sbaglia è protetto dalle conseguenze dei suoi errori, e che le conseguenze di decisioni sbagliate e male informate ricadono su qualcun altro. Perché dovremmo lasciare che l’idraulico o il dentista partecipino a decisioni su ciò di cui non sono esperti? “È un problema che si può risolvere alla maniera della Svizzera: localismo e decisioni dal basso verso l’alto. Il mio è un libro ‘di sinistra’ ma anti universalista. Perché penso si debbano evitare le concentrazioni di potere, e che le decisioni vadano prese al livello in cui le persone corrono rischi sulla loro pelle. Il localismo che ho in mente è quello della Roma imperiale: ogni provincia dell’Impero era lasciata in pace, almeno finché Roma riceveva i suoi tributi. Non c’erano guerre e le province erano protette. Il ruolo dello stato dev’essere quello di garantire il diritto e la sicurezza. Tutto il resto dev’essere soggetto a governance locale”.
Per rendere il sistema antifragile servono insomma più livelli di governance? Possiamo considerare l’Europa un sistema di questo genere? “L’Ue è stata costruita attorno al principio di sussidiarietà. Io amo il concetto di Europa. E’ affascinante l’idea di ricreare qualcosa di simile all’Impero romano: niente guerre, autonomia dei territori, rispetto dello stato di diritto. Ma non sempre essa è stata all’altezza di quel principio. Cosa succede se metti trentamila burocrati a Bruxelles nello stesso edificio? Che la regolamentazione si moltiplica. E il punto non è che la regolamentazione è intrusiva, ma che è inefficace nel risolvere i problemi”.
E, secondo il nostro, le persone comuni colgono i problemi meglio degli esperti. E’ il caso della disuguaglianza: il barbiere calabrese, il ciabattino, l’elettore di Trump – insomma, quello che va ora di moda chiamare il “paese reale” – comprendono il problema della disuguaglianza meglio di Piketty. Nei paesi ad alto tasso di rent seeking, dove la ricchezza si ottiene principalmente per connessioni politiche o rendite ereditarie, le persone tendono a diffidare dei ricchi. Per Taleb è la prova che il problema non è la ricchezza in sé, né la sua distribuzione, bensì il sistema che premia chi è vicino al pubblico più di quanto premi l’imprenditore che si assume i suoi rischi. “Le persone credono che il capitalismo sia permettere ai ricchi di diventare più ricchi. In realtà l’essenza del capitalismo è il rischio di finire in bancarotta. La misura della disuguaglianza la dà il fatto che in cima ci siano sempre gli stessi. La vera disuguaglianza si ha quando una persona si arricchisce senza che abbia preso più rischi di me, ed è una disuguaglianza non soltanto di ricchezza ma anche di potere. Le famiglie più ricche di Firenze sono le stesse rispetto a cinque secoli fa. Significa che esistono dei privilegi che le proteggono dal rischio. Il solo antidoto alla disuguaglianza è la dispersione del rischio: i sistemi più ingiusti, politici ed economici, sono quelli che premiano chi non ne corre nessuno”.
Abituati alla tragedia