I veri problemi di Ama nascosti sotto i rifiuti di Roma
L'azienda municipalizzata del Campidoglio ha un organico più elevato della media del settore, un capitale di rischio bassissimo e dipende dai contributi pubblici. Ecco perché rischia di fallire
Quando un’azienda è prossima a fallire non è mai per cause soltanto economico-finanziarie, di gestione operativa o di debolezza del management. E' sempre per un insieme delle tre. A questa regola non si sottrae l’Ama, Azienda Municipale per l’Ambiente di Roma. Lo dimostrano numeri concreti, come uno studio di R&S Mediobanca (luglio 2018) ed esempi di storie vissute.
Ama è una delle più grandi aziende municipali d’Italia, né potrebbe essere diversamente essendo quella che provvede all’igiene pubblica della capitale. Ciò significa anche che dovrebbe avere una struttura simile a una grande impresa, a cominciare da un patrimonio (capitale di rischio) proporzionato agli investimenti complessivi (mezzi tecnici, magazzino e capitale circolante). Tanto per dire, la media delle imprese italiane ha un capitale di rischio pari al 40 per cento del totale dell’attivo. Così che in momenti avversi, l’impresa può fare affidamento per il 40 per cento su risorse finanziarie proprie che non vanno restituite a terzi. Come altro confronto, la A2A di Milano, anch’essa municipale, ha un capitale di rischio pari al 30 per cento dell’attivo totale. Quello dell’Ama è pari ad appena il 13 per cento, un numero che dà una prima misura della debolezza della società. Un secondo dato pericoloso è l’organico (più di 12 mila dipendenti), molto elevato, più della media del settore.
Ma c’è un altro dato ancora più rilevante: l'Ama riceve contributi pubblici stratosferici. Nel 2016 ha preso 772 milioni, più del 91 per cento di tutti i suoi ricavi (852 milioni), più della metà di quanto ricevuto dall’intero settore dell’igiene pubblica in Italia (1.438 milioni), quasi il doppio del suo costo del lavoro (428 milioni). Nella classifica dei contributi pubblici alle aziende municipali, al secondo posto viene un’altra azienda di Roma, l’Atac, con 503 milioni. Nell’ipotesi che invece ricevesse contributi pubblici pari alla media nazionale in rapporto ai ricavi (16 per cento), l’Ama avrebbe diritto a 136 milioni, invece dei 772 percepiti. Pertanto, in conto economico le verrebbero a mancare introiti per 636 milioni(772 meno 136). Un'importo, questo, che sarebbe superiore all’intero costo del lavoro (pari a 428 milioni) che l’Ama sopporta per i suoi 12 mila dipendenti. In altri termini, in questa ipotesi, l’azienda dovrebbe smantellare per intero il proprio organico. Insomma, si evidenzierebbe un esubero occupazionale pari al cento per cento. Se ne può concludere che l’azienda è totalmente assistita dalla mano pubblica.
Se tutto ciò portasse a un’efficienza operativa accettabile, avrebbe un senso. Invece, la percentuale di raccolta differenziata a Roma (43%) è inferiore a Vicenza (67%), Venezia (65%), Perugia (62%), Torino e Firenze (59%), Bologna (57%), Milano (56%), Terni (52%) e Verona (49%), che di contributi pubblici non prendono un quattrino.
In questo disordine amministrativo-economico-finanziario, dieci giorni fa è andato a fuoco un deposito dell’Ama sulla Salaria a Roma. Conosco bene quello stabilimento, perché lo vendetti io all’Ama vent’anni fa. Quella era la fabbrica di autoradio della storica Autovox – di cui ero in quel momento amministratore straordinario – di proprietà della multinazionale Motorola, da questa ceduta alla fine degli anni Settanta a società speculative, poi letteralmente spolpata e fallita a dicembre 1988. Dovetti resistere alle pressioni dei soci falliti, vendere i vari cespiti con una procedura che consentisse di pagare i creditori nella misura massima possibile e salvare l’organico aziendale residuo. Insomma, quello che fa qualsiasi amministratore straordinario. Svolsi molte procedure pubbliche di gara per la vendita dello stabilimento, ma andarono tutte deserte. Poiché l’ex fabbrica era situata all’interno del Grande Raccordo Anulare di Roma ed era diventata ormai contigua ad aree abitative, avevo tre alternative: “brigare” con l’amministrazione comunale per ottenere una variante urbanistica e trasformare l’area da industriale a residenziale, ma io ero pubblico ufficiale e brigare non mi era congeniale; cedere il complesso a un grande centro commerciale, ma la vicinanza al Tevere rendeva l’idea impraticabile; cercare l’interesse di una grande società di servizi destinabili alla vendita. Nel 1997 trovai l’Ama che aveva bisogno di un centro per la manutenzione dei suoi automezzi, anzi per la loro meccanizzazione che consentisse a un solo operatore di guidare l’automezzo e azionare i sistemi di svuotamento dei cassonetti lungo le strade, insomma per un aumento della produttività. Nella trattativa spuntai un corrispettivo per la vendita della fabbrica (sia pur di poco) superiore al valore di perizia.
Nulla lasciava presagire che venti anni dopo l’Ama avrebbe utilizzato una ex fabbrica per depositarvi rifiuti urbani a rischio incendio. Il caos politico della giunta Raggi e quello operativo, economico-finanziario dell’Ama l’hanno reso possibile. E incendio è stato.
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