Viaggio ad Acilia dove lo stato è una bandiera strappata
Il ferimento di Manuel Bortuzzo e gli arresti di Daniel Bazzano e Lorenzo Marinelli hanno acceso i riflettori su questo territorio dove le istituzioni latitano e comanda la legge della strada
“Secondo me è meglio sei ti fai i cazzi tuoi. Intesi?”. Intesi. Perché pur non essendo una minaccia vera e propria, il tono non ammette repliche. “Se vuoi sapere qualcosa di Daniel Bazzano e Lorenzo Marinelli – era stato il consiglio – fai un giro dalle parti di piazza Segantini e chiedi”. Del resto all’angolo fra la piazza e via Saponara c’è anche il bar che Bazzano provò a rapinare due volte nel dicembre del 2012 prima di essere arrestato dai carabinieri. Un paio di domande, poi il consiglio da parte di un ragazzo come tanti, cappuccio della felpa in testa, orecchini e tatuaggi in vista. “Secondo me è meglio se ti fai i cazzi tuoi”.
Perché in questi giorni ad Acilia, nelle strade del villaggio Giuliano del quartiere San Giorgio dove Bazzano e Marinelli vivevano, la voglia di parlare con i giornalisti è ben al di sotto dello zero. “Poveraccio”, ripetono in coro le signore quando sentono il nome di Manuel Bortuzzo, il nuotatore trevigiano a cui una pallottola sparata da Marinelli ha distrutto la carriera e la vita paralizzandolo. A chiedere oltre, però, si finisce contro un muro.
“Adesso state tutti qua – dice un’anziana signora davanti ad una delle bancarelle del mercato distante poche centinaia di metri – ma di quello che succede tutti i giorni qui ad Acilia mica ne parlano mai i giornali”. Ci sono voluti i tre spari nella notte di sabato 2 febbraio, lì dove via di Acilia scende verso la Cristoforo Colombo e il quartiere sorto dopo la guerra per ospitare gli esuli giuliano dalmati lascia il posto all’edilizia residenziale dell’Axa, per accendere i riflettori su un territorio che sembra lontanissimo, molto più dei venti chilometri circa che lo separano dal Campidoglio.
Una distanza che, forse, niente racconta meglio della desolazione di Piazza di Capelvenere. Le bandiere d’Europa e di Roma Capitale stracciate dal vento e rese irriconoscibili che identificano gli uffici del X Municipio. “Proprio al centro della nuova Piazza Capelvenere è stata costruita una fontana con la statua della divinità. La leggenda vuole che Venere sia nata dalle acque, così le acque della fontana di questo luogo, tanto caro agli antichi romani, possono essere assunte a simbolo della nuova vita di Acilia – recita la scheda sul sito Internet del Municipio - Sopra la fontana è posta una targa dedicata alla memoria di Lido Duranti, ventiquattrenne del quartiere morto alle Fosse Ardeatine”.
Della nuova vita di Acilia, però, resta soltanto un selciato divelto, un tappeto di bottiglie rotte a terra, una fontana asciutta da anni, uffici e negozi abbandonati. E se questo è il volto dello stato ad Acilia, allora c’è poco da meravigliarsi se i contorni di quanto successo fra sabato notte e l’arresto di Bazzano e Marinelli, restituiscono una storia in cui lo stato e la sua autorità hanno fatto quasi da spettatori.
Perché Acilia non è più Roma e non è ancora Ostia ma la mafia del litorale, con volti diversi e storie tutto sommato poco note, comanda anche qui. E sabato notte, dopo il ferimento di Bortuzzo e con le telecamere dei Tg tutte puntate su questo quadrante della capitale cresciuto intorno all’insediamento fatto costruire dal Duce per dare una sistemazione alle famiglie più indigenti di Roma, sono stati propri i padroni di Acilia a decidere che Bazzano e Marinelli potevano solo scegliere fra la Questura e la tomba. Fra costituirsi e pagare col carcere il sangue versato o scappare per sfuggire alla condanna a morte.
Eppure quello di Marinelli non è un cognome qualunque ad Acilia e tutti al villaggio giuliano ricordano quando il 3 gennaio di due anni fa polizia e carabinieri presidiavano le strade attorno alla chiesa di San Giorgio Martire. Era il giorno dei funerali del boss Stefano Marinelli, zio di Lorenzo e fratello del padre Fabio anche lui in carcere per spaccio, morto agli arresti a 52 anni dopo anni di reggenza da padrone fra estorsioni, droga e controllo del business delle slot machine in società con i Casalesi di Mario Iovine e la famiglia locale dei Guarnera. Con i buoni uffici di Luciano Crialesi e Renato Santachiara, ultimi feroci epigoni della Banda Magliana assieme a quell’Emidio Salamone freddato proprio davanti ad una sala giochi di Acilia il 4 giugno del 2009. Morto il boss Marinelli, ad Acilia “i napoletani” comandano ancora gestendo il traffico di droga nonostante le inchieste che hanno decimato gli Iovine, i Guarnera e il loro esercito di pugili picchiatori albanesi. Un sistema all’ombra del quale Daniel Bazzano e Lorenzo Marinelli, raccontano gli inquirenti, sono cresciuti allargandosi una dose alla volta, un affare alla volta. Tollerati fino al regolamento dei conti di sabato sera quando i clan hanno deciso di dar loro una lezione e farli tornare nel piccolo recinto di libertà di impresa criminale che gli era stata concessa. Per questo, dopo aver sparato a Bortuzzo credendolo uno dei “nemici” con cui regolare i conti dopo il primo scontro nel pub irlandese di piazza Eschilo, Bazzano e Marinelli si sono rifugiati lontano, forse protetti da qualcuno del giro di San Basilio, fino all’ordine arrivato da Acilia. O il carcere o la tomba.
Ed è camminando per le strade di Acilia, da una parte e l’altra della Roma Ostia e della Roma Lido, che si capisce come il codice della strada che ha raggiunto e condannato i due fuggitivi sia potuto arrivare ben prima della legge e delle indagini della procura. Perché è come se in questo territorio, in fin dei conti, lo stato e l’amministrazione camminassero sempre un passo indietro, in ritardo sui tempi e sulle necessità di un quartiere in cui vivono circa 60mila persone. “La verità è che qui siamo abbandonati da tutti”, lamenta una mamma spingendo il passeggino fra le buche dell’asfalto davanti alla parrocchia di San Leonardo di Porto Maurizio. Le stesse cose che la gente ripeteva la scorsa estate protestando in strada contro i rifiuti non raccolti da settimane.
E nella latitanza delle istituzioni, fra la rabbia della gente, a soffiare sul fuoco c’è sempre la destra, estrema e nera. Come CasaPound, che ad Acilia ha il proprio quartier generale a dieci metri da quella piazza Segantini dove domenica 10 febbraio il X Municipio posizionerà un cippo commemorativo nella giornata del ricordo della tragedia delle Foibe. CasaPound che nei mesi scorsi ha guidato e animato le proteste contro il campo rom di viale Ortolani dove, nonostante gli appelli, montagne di rifiuti ostruiscono ancora oggi parte della carreggiata stradale. CasaPound che organizza le ronde notturne alla stazione di Acilia, che pulisce le aiuole davanti alle scuole e l’estate scorsa dopo aver bloccato le strade ha portato i residenti fin dentro il Municipio per protestare contro un guasto all’impianto idrico di alcune case popolari. “La gente di Acilia è stanca di essere abbandonata”, ripetono anche loro. E la sensazione è che sia difficile dargli torto. Perché il Campidoglio è lontano soltanto venti chilometri, ma da qui sembra distante anni luce. Sarà perché per arrivare a Roma con i mezzi pubblici bisogna affidarsi principalmente alla ferrovia Roma Lido che vince da quattro anni il “Premio Caronte” assegnato alla linea più disagevole per i pendolari, o sarà perché lo scheletro della nuova stazione Acilia Sud (foto sopra) sta lì sghembo e abbandonato a ricordare che da più di un anno i lavori sono fermi e non se ne vede la fine. “Entro la fine del 2017 sarà conclusa" aveva promesso Paolo Ferrara, allora capogruppo del Movimento 5 Stelle in Campidoglio, ai comitati dei pendolari locali durante un sopralluogo della commissione mobilità del Comune. Era il maggio 2017.
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