Storia di un albero a Roma
Abbattuto dal vento del cambiamento. Il pino che si è schiantato su due passanti a viale Mazzini è un apologo su Virginia Raggi
Sopravvissuto alle bombe della Seconda guerra mondiale, agli infortuni e agli incidenti più tragici della storia romana, uno dei pini centenari di viale Mazzini, nel borghese e benestante quartiere Prati, è stato abbattuto dal vento del cambiamento una lunedì qualsiasi di febbraio, terzo anno della disgraziatissima èra Raggi, schiantandosi dall’altezza dei suoi trenta metri su due automobili, un palo della luce e due poveri esseri umani, di quarantatré e cinquantadue anni che hanno avuto la sfortuna di trovarsi lì sotto. Destini incrociati, poteva capitare a chiunque, alla mamma di ritorno dall’asilo, alla giovane figlia in automobile verso un incontro di lavoro. E invece è capitato all’avvocato Luigi Lambo, che parlava al cellulare, davanti alla Corte dei conti, e che adesso in ospedale lotta contro la morte. Ed è capitato al postino Massimo Mignano che invece usciva a consegnare le lettere con la Panda di servizio, in una giornata come tante altre, con i pensieri d’ogni giorno, quando l’albero ha accartocciato le lamiere e la sua esistenza.
Certo non ci sono paesi nel mondo, nemmeno tra quelli ricchi e progrediti, dove le catastrofi naturali non procurino danni agli uomini e alle cose. In gergo assicurativo questi fenomeni vengono definiti “Act of God”, cioè volontà di Dio. Non è metafisica, ma un termine tecnico usato anche dai Lloyds di Londra. Gli Act of God, dice infatti l’Enciclopedia Britannica, sono “eventi imprevisti e imprevedibili derivanti dalle forze della natura”. Ma qui la natura e Dio c’entrano poco. C’entra invece il degrado, l’incapacità, l’inazione, l’incompetenza, il falò politico e amministrativo che si consumano nella capitale d’Italia da troppo tempo.
Tirava vento domenica, a Roma, ed è vero. Ma quel maledetto albero di viale Mazzini, quella bestia imponente e marcia non doveva essere più lì. L’albero era stato segnalato come pericolante nel 2017, eppure non era stato mai abbattuto, come moltissimi altri alberi, che sparsi per la città, dal centro alle periferie, non ricevono nemmeno le cure minime, nemmeno la potatura che è il grado zero. A Roma d’altra parte la gara pubblica per la cura del verde non è stata scritta né mai bandita dal comune. E il Servizio giardini – con la sua augusta sede di Piazza Metronia, zona di vivai e di viavai romano – sembra scorrere parallelo al destino della città, e alla sua decadenza. Negli anni Ottanta aveva duemilacinquecento giardinieri, poi scesi a millecinquecento, poi a mille, oggi sono 374 e si devono occupare di 330 mila alberi. Dunque ognuno bada in media a mille arbusti. E allora di che stupirsi? I parchi pubblici non sono dissimili a delle giungle o a delle pattumiere, e gli alberi non sono più quelli cantati da Venditti “come pini di Roma/ che la vita non li spezza”, ma mostrificati dall’incuria diventano alberi assassini.
Roma fa schifo, ci ripetiamo. Ma l’indignazione stanca. E’ una virtù passiva, che si è trasformata in uno stato d’animo congenito, in un’abitudine, in un riflesso condizionato. Come sarebbe meglio invece se ciascuno facesse il suo mestiere, se insomma l’amministrazione comunale facesse i bandi di gara, senza incappare continuamente in errori formali e sostanziali, in un groviglio in cui le promesse demagogiche non mantenute non si contano e in cui nemmeno gli atti di amministrazione sensata non si contano (nel senso che non ci sono). La malattia senile e putrescente di Roma fa girare la testa, certo. E la città è pur sempre quella odiata da Moravia, sporca, sbracata e capitale di nulla. Ma questi tre anni di governo Raggi non sono stati nemmeno una Tachipirina sulla febbre delle oscenità, semmai un revulsivo, un orticarie sul corpo già pieno di vesciche. E allora un albero vecchio e marcio che cade, e quasi uccide, diventa l’apologo più orrendo e calzante. “Signori”, diceva. “Il vento sta cambiando”.
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