Daniele Nardi, il Nanga Parbat. Chiacchiere con Filippo Facci
Quella folle passione di arrampicarsi in montagna. In cerca del proprio limite
Filippo Facci è uno di quelli che ha questa passione, o lucida follia, di andare a rischiare la morte arrampicando, e magari filmarsi su YouTube mentre precipita tra i canaloni ghiacciati del Resegone. L’alpinismo, quello vero, è questo: uno contro Tutto. E tra il Resegone e il Nanga Parbat c’è una differenza di taglie, di medaglie, e di tecniche. Ma l’essenza è la stessa: che cosa ti porta a rischiare la pelle per questa Inutile conquista, come la chiamerebbe Werner Herzog, estremo regista e non per caso alpinista estremo? Daniele Nardi, uno dei più noti alpinisti italiani (per sua scelta di presenzialismo ed esibizione sui social), è disperso da qualche parte con il compagno di scalata Tom Ballard sul versante Diamir del Nanga Parbat, a nord-ovest. Erano saliti con il folle sogno di aprire una nuova via sullo sperone Mummery, per molti un’impresa impossibile. Li stanno ancora cercando con i droni, ma è probabilmente sarà una ricerca vana.
Filippo Facci, di professione giornalista, è la persona giusta con cui chiacchierare per farsi spiegare, non per forza per capire, che cos’è, dove sta la radice di quell’avventura ai confini di tutto, di quel desiderio estremo: non di “scalare una cima”, ma di rischiare la vita su una Montagna Nuda (questo significa Nanga Parbat) e di farlo “nudi”, dice lui, perché quando lo fai “sei riportato allo stato di natura, ai bisogni essenziali”. Dice: “Me lo chiedo spesso, se lo chiede chiunque pratichi questa disciplina, che non è uno sport, non ci sono regole né gare né premi. Perché lo fanno, invece di andare da uno psicologo?”.
Ecco, perché? “Di Daniele Nardi posso dire quello che tutti nell’ambiente sanno, senza voler giudicare. Cioè che da anni cerca deliberatamente il dramma, il pathos estremo. L’impresa che ti fa entrare nel numero di quelli che ce l’hanno fatta, oppure l’incontro fatale con quel limite. Il rischio è che ci sia riuscito”.
Reinhold Messner, il più grande, gli sconsigliò già anni fa di tentare quella via sullo sperone Mummery, d’inverno poi. Simone Moro, il più grande scalatore di ottomila in invernale oggi in attività, un anno fa si separò da lui, litigando, sempre su quella montagna, per divergenze sul modo di affrontarla. Si va in alto per misurare se stessi, “allo stato di natura”, o per cercare un’impresa: ma non ci si va proprio per morire, no? “Si fa alpinismo per questo motivo, su cui rifletto spesso, e io lo faccio per questo: perché è andare alla ricerca dei propri limiti. Limiti umani, al contrario di quello che spesso si pensa: non si tratta di una forma di superomismo, è al contrario proprio un’esperienza infinitamente umana. La montagna è un abisso verticale, non hai niente sotto i piedi, che ti fa capire tutte le tue carenze, devi andare all’osso, ai bisogni primordiali: fatica, paura, caldo, freddo, fame, sete. Non c’è altro. Io ad esempio vado spesso da solo, senza Gps o telefono: è il primo errore che tutti ti insegnano a evitare. Ma per me la sfida è con me stesso, punto. È una cosa che, magari a un’ora e mezza da casa, ti costringe a misurarti con il limite, il resto non c’è più”.
Poi esiste “un secondo paradosso umanissimo”, dice Facci: “In montagna non esiste il presente. Mentre sali, c’è solo il pensiero di farcela. Quando sei in cima sei così sfatto, stravolto, che non c’è niente, vuoto. Poi la discesa: pensi solo ad arrivare. Non c’è il presente, è solo un viaggio eterno andata/ritorno. Non è un caso che molti filosofi, o musicologi, siano stati appassionati alpinisti”.
Provo a dire: come una quarta dimensione, fuori dalla percezione normale. Lui risponde: “No invece, è il ritorno alla dimensione normale. Al di fuori di tutti i riferimenti, culturali o sociali, religiosi che l’animale uomo si è costruito. Affronti la perfetta indifferenza della natura. La montagna non è assassina, non gli importa nulla di te. Molti grandi alpinisti sono, più o meno consapevolmente, dei panteisti”.
Facci l’alpinismo l’ha scoperto da pochi anni (complice un reality cui partecipò quasi per gioco, ma quasi lo vinse). Nel frattempo ha sempre avuto una sorta di vocazione a rischiare la pelle. Cadendo da un tetto innevato o cadendo in elicottero, proprio col suo amico Simone Moro. Montagna, limite, rischio. Cose che noi umani… “Per capire chi sono: e magari poi scopri che sei un coglione: ah ecco, il limite era questo…”.
C’è un terzo paradosso che spiega molto di questo mondo a parte, di questa piccola combriccola degli alpinisti, persone che litigano molto spesso tra loro, rancori che durano intere vite, e Nardi in questo è una star: “Il paradosso è questo: chi sopravvive non viene perdonato. Potremmo parafrasare: muore giovane chi è caro agli alpinisti. È la storia di Bonatti, non gli perdonarono di essere sopravvissuto al K2, mentre ‘avrebbe dovuto’ essere morto; di Messner, che proprio sul Nanga perse suo fratello Gunther, e lo hanno accusato di averlo abbandonato. O anche di Moro”. Forse proprio perché Moro è diverso, un razionale pacato, che calcola i rischi? “Oggi c’è solo un’ultima vera conquista da fare: l’invernale del K2. Ma lui, che è il migliore, ha sempre detto che non ci proverà mai perché pensa che sia impossibile. Cercare il limite non esclude la riflessione”. Noi, della razza che al massimo un trekking tra i rifugi, guardiamo affascinati.