Se la vittima non è una bambina
La cautela sulla madre di Prato ci dice che la violenza è maschile, per compensazione
Una donna di trentacinque anni è indagata per violenza sessuale su un minore. Su un bambino di tredici anni, che ora ne ha quattordici, e che può essere il padre del figlio che la donna, un’infermiera di Prato, ha partorito circa cinque mesi fa, e che suo marito ha riconosciuto, coccolato e amato insieme a lei. Infatti lui adesso dice solo, terrorizzato: “Ma ora che succede? Lo perdo questo figlio?”. È una storia piena di implicazioni, e ci sono molte vite in gioco. Ci sono due famiglie, un bambino appena nato, un bambino di quattordici anni che la procura deve tutelare e intorno al quale però ci sono già rivelazioni anonime e i dettagli morbosi della chat con questa amica di famiglia che gli dava ripetizioni di inglese, e che si proclama innocente. Se lei fosse stata un uomo, e il tredicenne una bambina, probabilmente qualcuno avrebbe già titolato: pedofilo. Avremmo scritto anche: stupro.
Ci sarebbe da qualche parte un plastico dell’appartamento dove il mostro dava ripetizioni di inglese. Avremmo chiuso in casa a chiave le nostre figlie. Ma è una donna, la madre di un bambino di sette anni, e tutti siamo cauti, vogliamo capire meglio, non ci capacitiamo che esista un’orchessa pronta a sbranare, a toccare i nostri bambini, in qualche angolo del cervello rivediamo vecchi film in cui il sogno di un adolescente con l’amica di famiglia si avvera e lui le è grato per sempre. Io che ho spesso tredicenni maschi per casa fatico a credere che abbiano sogni del genere, ma mi interrogo anche sulla volontà di seduzione e di sopraffazione di una donna di trentacinque anni nei confronti di un bambino. Che sembra più grande della sua età, e che ha detto ai genitori, attoniti, che la prof. infermiera non lo lasciava in pace, fino ad arrivare a rivelargli, per legarlo a sé, che il figlio era suo, fino a minacciare di raccontarlo, lei stessa, a tutti.
Siamo cauti, siamo stupiti, e non riusciamo questa volta a determinare nettamente i confini dell’essere pienamente vittima. Abbiamo perso la ferocia del fare giustizia. Siamo più seri. Perché la vittima in questo caso non è una donna, ma il carnefice sì. Seduzione, sopraffazione, persecuzione, manipolazione, ricatto, fino al bambino che scoppia in lacrime e racconta tutto. C’è tutto quello che conosciamo, ma c’è il corpo di una donna al posto del corpo di un uomo. In quel letto, su quel divano, in quei pomeriggi di ripetizioni, nei messaggi. C’è, non solo fisicamente, ma anche culturalmente e socialmente, una donna al posto di un uomo.
E allora avviene, soprattutto dentro i cervelli degli uomini, una specie di compensazione, sociale e culturale: la parte cruenta è sempre quella maschile. Una donna rinuncia già a molte cose, corre più rischi da quando è bambina, guadagna di meno, fatica di più, quindi almeno stabiliamo che è sempre più grave la violenza di un uomo. La violenza è maschile. La coercizione fisica di un minore è maschile. Soprattutto la brutalità: la brutalità è maschile. E tutto ciò che attiene alla violenza sessuale è maschile. Perché le colpe che hanno a che fare con il sesso, con il desiderio incontrollato, con l’ossessione erotica, sono colpe maschili. Forse anche l’istinto è maschile? Perfino di un bambino di tredici anni qualcuno potrebbe pensare, in un angolo della mente, che non sia completamente, fino in fondo, una vittima. Di una bambina, non lo penseremmo mai. Così adesso lo scambio dei ruoli, lo scambio dei sessi, ha portato a una cautela che non conoscevamo. E che non riguarda il garantismo ma la percezione di una differenza, nello stabilire uno schema per cui l’uomo continuerà a prevaricare e la donna ad avere un’attenuante.