Notre-Dame è le anime della Francia insieme. Perciò non crolla
Reims, Saint-Denis, Chartres: i simboli religiosi e politici che hanno deciso della storia francese
Milano. “La fede è una chiesa, è una cattedrale radicata nel suolo di Francia / Ma senza speranza, tutto questo non sarebbe che un cimitero”. Si passerà la fissazione per Péguy, in un giorno come questo (qui è il Mistero dei Santi Innocenti) e del resto non è fissazione. Péguy registrò in diretta il crollo vero, non questo fortunatamente sventato e tutt’al più simbolico, delle cattedrali di Francia. Dreyfusardo, soffrì la conversione come un’incisione nella carne, per quel bisturi della laïcité che tagliava in due, da secoli, il corpo della nazione. Affatto convinto, lui, che i clericali fossero la parte migliore. Ricordarsene, aiuta a tenersi distanti tanto dai surplus emozionali tanto dalle rivendicazioni vagamente cristiano-indigeniste che in ogni bagliore notturno leggono una metafora della fine dell’occidente. O il presagio di un crollo che non c’è stato. Perché la prima cosa è che non è crollata, nemmeno le volte: rebâtir. E la seconda, altrettanto importante, è che Notre-Dame non è un simbolo astratto e metastorico, dunque contendibile tra apocalittici e disintegrati. Ma è un luogo dentro la storia, di tutti i francesi. Se non fosse questo, di tutti, sarebbe sì un cimitero.
La storia di Francia passa ovviamente anche dalla storia della chiesa e per le sue cattedrali. Ma è così stratificata e complessa che i simboli hanno il loro senso soltanto se stanno al loro posto. Li si lascia al loro posto fisico. Notre-Dame de Paris è la Francia, ma non la Figlia prediletta della chiesa, né il tempio del regno cristiano dei Luigi. Non è il campanile che fa ombra al municipio, ghibellini e guelfi sono una storia nostra. Notre-Dame è il luogo che vide l’incoronazione imperiale, molto jupiterien, di Napoleone. E che ascoltò nel 1944 il Te Deum e le campane che finalmente suonarono per la fine della guerra e per l’arrivo in parata, ma quasi in processione tra la folla, del Generale De Gaulle. Un luogo che è la Francia, non una parte della Francia. Sarà ricostruito.
Si potrebbe metterle in un gioco dei quattro cantoni, le anime diverse di cui la cattedrale di Parigi riesce a fare sintesi, e solo lei. Perché la vera cattedrale della Francia unta di sacralità è Reims, la cattedrale dei re dove furono incoronati tutti, a partire da Ugo Capeto, se proprio si cerca una cattedrale adatta per i sovranisti. All’altro capo c’è il luogo dove i re di Francia hanno invece trovato sepoltura, Saint-Denis. Basilica e non cattedrale, ma è da qui che dovette passare, per inchinarsi alle messe che valgono Parigi, anche Enrico il calvinista. Perché è a Saint-Denis che l’abate Suger, amico e poi gran consigliere di ben tre Luigi, tra cui il Santo, pose le basi storiche teologiche e politiche non solo del gotico ma anche del regno cristiano. Saint-Denis che oggi è circondata dall’islam, ma senza le sue volte e le sue tombe non si capirebbe nulla della Francia e della sua complicata, ombelicale, a volte strozzata simbiosi con il cristianesimo. Il terzo cantone sta sulla collinetta di Chartres, e ha visto transitare meno re. Ma ha il Velo della Vergine donato da Carlo il Calvo, e le sue vetrate e le sue geometrie di simboli ne fanno un algoritmo della civiltà medievale, e il cuore della fede religiosa di Francia. Ma al centro di questi cantoni a sesto acuto, Notre-Dame di Parigi è il riassunto, la sintesi. Riassume la storia di Francia persino nel suo rifacimento ottocentesco, col suo medioevo messo in posa, gargoyle aggiunti compresi. Bruciata, distrutta più volte, è la Cité, è la città. Fra i torti che ha subìto, i più gravi sono gli oltraggi della Rivoluzione. Eppure è lì che Napoleone si fece incoronare, non più con l’unzione sacra di Reims, non più re taumaturgo o fannullone, ma imperatore per pace concordataria. Grandeur, certo, ma per ottenerla dovette prima riparare al danno giacobino, ristabilire la pace o una tregua non armata. L’incoronazione di Notre-Dame vale i nostri Patti lateranensi. Non che per una dozzina abbondante di decenni successivi il rapporto tra lo stato e la chiesa sia stato sempre dei migliori. Ma se lunedì sera Emmanuel Macron e l’arcivescovo Michel Aupetit hanno parlato in modo informale da un solo microfono e a una sola nazione, davanti ai bagliori dell’incendio ancora non domato, e si sono abbracciati in modo così poco istituzionale, non è stato soltanto per l’emozione. Se nel 2018, poco dopo il suo ingresso all’Eliseo, Macron ha annunciato l’intenzione di ripensare il rapporto dello stato con le religioni, sempre nella laïcité ma riconoscendo che non è più tempo – per la Francia, per l’Europa – di non mettere in comune i propri valori e tesori di famiglia dentro a società a rischio di implosione. Se sulla stessa strada di una “nuova laicità” si era incamminato già Sarkozy, in un dialogo rimasto più che altro intenzionale con il Benedetto XVI dei Bernardini, tutto questo è potuto e può avvenire soltanto attorno a un simbolo vivo di unità della nazione come la cattedrale di Parigi. Non a un cimitero di simboli. Rebâtir.