Il fiume di parole (non dette) di Massimo Bordin, illuminista che credeva nelle coincidenze
Il giornalista era l’incarnazione perfetta di un’idea di Leonardo Sciascia, quella secondo cui per visitare i sotterranei del potere italiano bisogna addestrarsi a leggere i giornali, possibilmente tutti i giornali, con acribia filologica
Dice: salvate l’archivio di Radio Radicale. E mancherebbe altro. Ma il custode che ne conservava tutte le chiavi se n’è appena andato, e non potremo consultarlo più. Per me Massimo Bordin non era solo la voce che mi raccontava le favole del buongiorno più o meno dagli anni in cui smisero di raccontarmi quelle della buonanotte. Era anche un personaggio letterario o cinematografico. Con un altro suo estimatore, il poeta Marchesini, ci divertivamo a immaginarlo nei panni del Gene Hackman della “Conversazione” di Coppola, l’uomo solitario e un po’ ossessionato che passa le notti a decifrare brandelli di intercettazioni oscure. E tanta era la curiosità di farmi guidare nel suo teatro della memoria che un pomeriggio presi coraggio e gli dissi, di punto in bianco: facciamo un libro-intervista. Capii subito che non ne aveva voglia e che avrei dovuto pregarlo molto – per la sua indole schiva, per quel rigore quasi ruvido che gli faceva vedere in qualunque forma di vanità un viziaccio da fustigare, forse anche per pigrizia. E infatti lì per lì neppure mi rispose. Speravo di trovare, con quell’espediente un po’ pretestuoso, una porta di servizio per accedere al suo archivio vivente, per estorcergli i segreti delle mille allusioni, dei sottintesi, delle frasi a mezza bocca che lasciava cadere nella sua rassegna stampa, con quella voce di cui molti notavano la raucedine ma pochi la delicata prosodia, la capacità di farti sentire ad ogni pausa il segno quasi estinto del punto e virgola.
Erano tanti, per me, i suoi enigmi. Come mai citava tutti quei nomi e quei casi un po’ oscuri, a volte quasi esoterici, della Terza Repubblica francese? Cosa trovava di così esemplare in quelle vicende da preferirle ai riferimenti autoctoni, quando si trattava di sollevare la cronaca italiana alle altezze dell’allegoria? Perché, davanti all’assalto dei nuovi barbari alla gerontocrazia italiana, la sua mente scartava d’istinto “Giovinezza” per andare a ripescare il “Rajeunissement de la politique”, un libro di Henry de Jouvenel del 1932? E la sua minuziosa erudizione in materia di romanzo poliziesco – conosceva Simenon a menadito, ogni tanto menzionava anche vezzi, dettagli e predilezioni poco note del suo Maigret – che nesso aveva, se ne aveva uno, con il suo sguardo al tempo stesso illuminato e sospettoso sulle cose italiane? E perché, poi, sapeva la città di provenienza di tutti i personaggi della scena pubblica, e sembrava trarne deduzioni rigidissime, quasi applicando una imperscrutabile geografia del carattere nazionale? Ognuno di quegli indizi lasciava intravedere una visione elaboratissima del potere italiano e della sua storia; se la parola non sembra pomposa – e a lui senz’altra lo sarebbe sembrata – vorrei dire una sua filosofia. Ma la trama intera di quell’arazzo non emergeva mai dalla penombra perché – come del resto spesso accade ai filosofi, fino al socratico Pannella – Bordin si affidava più volentieri alla parola parlata, alla parola d’occasione. Ogni volta avrei voluto saperne di più; ogni volta faceva frusciare la pagina, tossiva e passava oltre.
Ai miei occhi, Bordin era l’incarnazione perfetta di un’idea di Leonardo Sciascia, quella secondo cui per visitare i sotterranei del potere italiano bisogna addestrarsi a leggere i giornali, possibilmente tutti i giornali, con acribia filologica; notare i non detti più dei detti, le elusioni e le dissimulazioni, far caso a indizi impercettibili, tic verbali, espressioni ricorrenti. Di ognuna delle parole-spia scambiate nei palazzi della politica italiana, e ancor più nelle aule di giustizia, Bordin sapeva ricostruire la storia, la genesi remota, e quando la vedeva ricomparire sulla pagina anche dieci o vent’anni dopo, faceva risuonare il passato sul presente di modo che tu potessi sentir vibrare gli strani accordi, consonanti o dissonanti, che si generavano; perché dopotutto Bordin era, come Sciascia, un illuminista che crede nelle coincidenze. Il dormiveglia in cui molti di noi lo ascoltavano era la disposizione ideale per accogliere quelle risonanze profonde; e nessuno che si fosse assuefatto alla sua musica lo avrebbe mai barattato con una di quelle voci pimpanti di caffeina che sanno intonarsi solo al ritmo ricattatorio dell’attualità.
Mi restava, però, quel capriccio del libro-intervista. Molto tempo dopo lo incrociai frettolosamente negli studi di Radio Radicale e pensai che era l’occasione per riparlargliene. Prima ancora che aprissi bocca mi disse: “Ti devo una risposta”. Ma cosa voleva dirmi? Ancora una volta, caro Massimo, mi hai lasciato con la voglia di strapparti mille parole in più, di farmi raccontare mille altre favole del buongiorno.