Di trattativa in trattativa
Il circo mediatico ha un nuovo film per accusare la casta politica. Salvateci dai professionisti dell’oltre mafia
Palermo. “Se qualcosa può succedere, succederà”, è una variazione della “legge di Murphy” applicata alla cronaca giudiziaria. E così succede che Matteo Messina Denaro irrompa sulla scena dei misteri d'Italia nel giorno in cui si commemorano le vittime di Capaci e a Palermo si mescolano coloro che sono mossi da una genuina voglia di partecipare e chi è arrivato in città per mostrarsi nella passerella dell'antimafia. Non è una novità, ma stavolta il Padrino di Castelvetrano diventa il protagonista della Trattativa delle trattative. Era nell’aria da tempo, se ne sussurrava nei corridoi dei palazzi di giustizia, ora la sua presenza si è materializzata.
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In principio, infatti, c’era la trattativa fra lo Stato e la mafia, quella per cui gli ufficiali dell'Arma sono stati condannati a Palermo insieme ai mafiosi. Non importa cosa accadrà in appello, per alcuni la storia è già stata scritta. Poi fu la volta della trattativina, la declinazione calabrese delle indagini sulle stragi. Ora il livello si alza con i segreti custoditi dal latitante trapanese che tengono, ancora una volta e per sempre, sotto scacco lo Stato.
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A lanciare la fase 3 è Antonino Di Matteo, sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, approdato a Roma dopo avere rappresentato l’accusa al processo palermitano. Rispondendo alle domande di Andrea Purgatori, che nei giorni scorsi ha curato uno speciale televisivo sull’eccidio di Capaci, Di Matteo sostiene che “Messina Denaro è a conoscenza di segreti legati a quelle stragi”. Stragi in cui Cosa Nostra sarebbe stata “eterodiretta” da mandanti esterni. “Un boss di quella caratura – ragiona Di Matteo – in possesso ancora delle sue piene facoltà mentali, che conosce quei segreti è potenzialmente in grado di ricattare parte dello Stato”. Non si può restare latitanti per tutto questo tempo se non si è coperti da qualcuno. E deve essere qualcuno abile a tal punto da prendersi gioco dell’intera macchina investigativa che dà la caccia al latitante. Agli ordini della procura di Palermo ci sono decine di carabinieri e poliziotti che rastrellano ogni centimetro di territorio e ascoltano ogni spiffero registrato dalle microspie piazzate persino sugli alberi. Visto il trascorrere del tempo il personaggio misterioso potrebbe avere ricevuto il testimone da qualcun altro che nel frattempo è morto. Che spreco di energie e risorse. Cercano un capomafia che se ne sta infrattato chissà dove con l’avallo degli infingardi di Stato. Messina Denaro sogghignerà di fronte ad un esercito di investigatori che perde il sonno per acciuffarlo. E che dire di quel “lo prenderemo presto” che un giorno sì e l'altro pure si sente pronunciare da un autorevole poliziotto, carabiniere o magistrato. Fanno a gara nel ripetere che “il cerchio si stringe”. Non è sfuggito al rito neppure il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho che qualche mese fa si è parecchio sbilanciato: “Il 2019 sarà l’anno della cattura di Matteo Messina Denaro”. Forse Cafiero de Raho ne sa più di tutti ed è per questo che ha creato un pool di sostituti procuratori ad hoc per scrivere la verità sulle stragi di mafia, scovando i mandanti esterni. Ed ha chiamato a farne parte lo stesso Antonino Di Matteo, che per la verità con le stragi si è già misurato maneggiando le verità di Vincenzo Scarantino, pentito fasullo, sui cui racconti sono state emesse sentenze di condanna farlocche sull'eccidio di via D'Amelio. A Scarantino ha creduto una stola di magistrati, requirenti e giudicanti, e non passa giorno che Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, non chieda conto e ragione anche alle toghe del depistaggio che viene definito colossale. Borsellino vi ha aggiunto l’aggettivo “grossolano”. Come darle torto: se depistaggio c’è stato il depistatore ha potuto contare sulla distrazione collettiva. Il Csm ha pure aperto un procedimento disciplinare nei confronti di una serie di magistrati che si chiuderà con un nulla di fatto perché è trascorso troppo tempo. Peccato, però, che il tempo si è perso per colpa delle indagini sbagliate. Quando Scarantino dimenticava le frasi che recitava a memoria, così sostiene l’accusa, si alzava per andare in bagno e lì trovava i poliziotti-suggeritori pronti a rinfrescargli le idee. Quindi tornava di fronte ai magistrati e parlava, parlava parlava senza che si accorgessero di nulla. Un delinquente di mezza tacca che si spacciava per mafioso stragista al fianco dei pezzi da novanta della mafia palermitana. Era inverosimile, ma ci hanno creduto tutti, anche coloro che oggi si defilano.
Le parole di Fiammetta Borsellino sono state destabilizzanti. Hanno fatto cadere il velo di ipocrisia. Un giorno, dopo anni di riservatezza e silenzio, la figlia di Paolo decise di dire la sua partecipando ad una trasmissione in Rai condotta da Fabio Fazio in diretta da via D’Amelio. Tutti ad applaudire il coraggio di una donna minuta e forte che vive un dolore eterno. Pian pano, però, sono spuntate delle crepe nel consenso. E’ accaduto quando la figlia del giudice ha iniziato a rimarcare le responsabilità dei magistrati. Il fronte antimafia, quello duro e puro che crede nell'infallibilità delle toghe e nel dogma della Trattativa, ha preso le distanze. Fino a giungere alla rottura. Erano i giorni in cui Salvatore Borsellino si scusava con Di Matteo per le parole della nipote Fiammetta “colpevole” di lesa maestà, per avere accostato il pubblico ministero al grossolano depistaggio. Fiammetta non destabilizza solo i rapporti familiari in casa Borsellino, che restano faccende private, ma un modello di pensiero che porta avanti tesi che hanno la sola forza di non potere essere smentite. Chiedere conto e ragione ai magistrati, sviscerare gli errori commessi, arrivare a chiedere scusa alle persone ingiustamente condannate all'ergastolo vuol dire ancorare ogni ragionamento a quella realtà fatta di carne, ossa e purtroppo sangue. Il sangue dei tanti, troppi morti ammazzati.
Matteo Messina Denaro
Niente a che vedere con chi teorizza l’esistenza di un Truman Show giudiziario dove un regista occulto scrive da decenni il copione. Qualcuno si prende gioco di magistrati, poliziotti e carabinieri che diventano saltimbanchi di una sceneggiatura ricca di colpi di scena.
Come quello sull’arresto di Bernardo Provenzano. La sua latitanza, durata 43 anni, finì l’11 aprile del 2006 nelle campagne corleonesi. Altro non fu che una variazione sul copione degli indicibili accordi che ne avevano garantito la fuga infinita. Provenzano, così ha sostenuto l'accusa al processo Trattativa, si era guadagnato un salvacondotto tradendo Totò Riina.
Le indagini che portarono all’arresto di Montagna dei Cavalli erano iniziate otto anni prima, quando si attivò il gruppo di poliziotti agli ordini dell'allora capo della Catturandi della Squadra mobile di Palermo, Renato Cortese, oggi questore. Fu lui ad acciuffare il boss, guidato dai magistrati che coordinavano le indagini: il capo della Procura Pietro Grasso, l’aggiunto Giuseppe Pignatone, e i sostituti Marzia Sabella e Michele Prestipino.
Il salvacondotto di Bernardo Provenzano era scaduto? La cronaca racconta tutta una serie di passaggi investigativi vincenti fino al momento in cui si vide una mano ritirare un sacchetto di vivande in un casolare di campagna. Era la mano di Provenzano che morirà sepolto al 41 bis, lui che, secondo la ricostruzione giudiziaria, aveva guidato la Trattativa, tradendo il compaesano Riina e ottenendo in cambio il conforto di una cella umida fino alla fine dei suoi giorni (l’arresto di Provenzano fu un’operazione di polizia vera e il merito fu di Pignatone). Ora la storia si ripete. Dopo Provenzano è Messina Denaro a godere delle protezioni di Stato, ad approfittare della sceneggiatura che qualcuno sta scrivendo. Era quasi naturale che dopo decenni di indagini e manovre di avvicinamento si approdasse al latitante. A Palermo c’è un fascicolo “bis” sulla trattativa in cui compare l’ombra dei servizi segreti e del terrorismo nero. Si è tornati a parlare dei politici di sempre su cui si è già indagato senza approdare a nulla. Nel frattempo si è sviluppata la parte calabrese dell’indagine perché ci sarebbe stato un patto segreto tra Cosa nostra e ‘ndrangheta per costringere le istituzioni ad allentare la severità delle norme contro la criminalità organizzata. Norme mai ammorbidite.
Per la gioia di scrittori e sceneggiatori in crisi ecco la Verità: Messina Denaro non lo arrestano perché è protetto. Le prove? Zero
Ad alimentare le indagini sono quasi sempre vecchi pentiti che recuperano la memoria con una progressione temporale quanto meno sospetta. Un pentito che ricorda all’improvviso fatti che sapeva da decenni andrebbe bacchettato, piuttosto che farlo assurgere ad oracolo. L’ultimo degli smemorati è il catanese Maurizio Avola. Nel 1994 raccontò che “un forestiero arrivò a Palermo nei primi mesi del 1992”. Non sapeva chi fosse. Venticinque anno dopo le sue prime dichiarazioni le maglie della sua mente si sono allargate. Adesso ricorda tutto. L’uomo misterioso, di cui fornisce persino la descrizione fisica, era un artificiere legato a John Gotti, capo di una potente famiglia mafiosa italo americana di New York. In quei giorni del '92 Avola aveva portato dell’esplosivo nella zona di Termini Imerese. E adesso i pm di Caltanissetta, a cui è toccato ripartire dalle macerie lasciate da chi li ha preceduti, dovranno verificare le sue dichiarazioni a distanza di un quarto di secolo. La speranza è che non si facciano guidare per mano sulle montagne russe della giustizia dai collaboratori di giustizia come è accaduto ad altri colleghi. Finora hanno dato prova di accortezza.
La verità è che le parole dell’Avola di turno sono linfa vitale per il circo mediatico. Ridanno fiato a scrittori, sceneggiatori e convegnisti. E allora chi meglio di lui, del superboss Messina Denaro, l’ultimo dei corleonesi in fuga, il custode dell’archivio di Totò Riina scomparso dalla villa di via Bernini, può tornare utile per alzare il livello e riconquistare le prime pagine del dibattito nazionale? Non lo arrestano perché è protetto con buona pace di chi lo cerca. Nei giorni in cui si commemorano Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro l’attenzione verso certi argomenti è massima e l’opinione pubblica ben disposta ad accogliere il pensiero di chi, come il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, ritiene che “la narrazione semplificata è messa a dura prova da verità che vanno oltre il livello mafioso”. E’ lecito chiedesi chi siano, oltre alla magistratura che ha indagato per decenni, i corresponsabili della semplificazione. Scarpinato prova addirittura disagio nel partecipare il 23 maggio e il 19 luglio alle pubbliche cerimonie commemorative delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Si conosce tutto dei mafiosi che attuarono le stragi, nulla dei carnefici di Stato, dei mandanti esterni. Si trovino le risposte, dice Scarpinato, e forse si spiegherà “anche la straordinaria longevità della latitanza di Messina Denaro”.
E’ il trionfo delle tesi che non possono essere smentite. E dunque vere a prescindere. Che Dio ce ne guardi dall’utilizzo di tali tesi nei processi. Serve altro, servono le prove. Nel frattempo non resta che allacciare le cinture di sicurezza e provare a resistere al pensiero dominante che fa dell’Italia un paese di mascalzoni e complottisti, di gente che trama alle spalle del popolo. Non sarà facile dopo che, il 13 giugno, su Rai 2 e in prima serata, andrà in onda il film “La Trattativa” scritto e diretto da Sabina Guzzanti. Con il suo linguaggio da cabaret l’attrice, regista, comica e caratterista, sbeffeggia coloro che sono stati presi in giro dai carabinieri che trattarono con i boss. Persino uno come Giancarlo Caselli, ex procuratore di Palermo, c’era rimasto malissimo nei giorni in cui usciva il film. Lui, simbolo dell’Antimafia militante, canzonato per la mancata perquisizione del covo di Riina. “Fuoco amico” a cui Caselli rispose indignato.
Il direttore di rete Carlo Freccero ha avuto il via libera alla messa in onda del film il prossimo 13 giugno. Seguirà un dibattito con Giovanni Bianconi del Corriere della Sera e Marco Travaglio de Il Fatto quotidiano. A tenere botta nell’arena televisiva ci proveranno gli avvocati di Marcello Dell’Utri e Mario Mori, Basilio Milio e Giuseppe Di Peri. Un confronto impari. Cosa volete che gliene freghi al grande pubblico generalista del linguaggio giuridico con cui cercheranno di parlare di prove.
La Trattativa ci fu. Punto e basta. Lo dice pure Sabina Guzzanti, fra una risatina e l’altra. E se per caso qualcuno dovesse farsi un’idea diversa dei fatti ci penserà un’intervista di Di Matteo, anch’essa prevista nel palinsesto della serata, a mettere a posto le cose. Niente più avanspettacolo, ma la sacralità delle parole del magistrato. Messina Denaro, nascosto da qualche parte, riderà di un paese che lo crede in fuga senza sapere che qualcuno lo sta proteggendo.