Le grandi navi come i Pink Floyd trent'anni fa
Due disastri che sono però l’ultima, disperata occasione per Venezia di salvarsi da se stessa
Quando la notte del 15 luglio 1989 la disumana marea si ritirò, poco mancò che i Pink Floyd lasciassero dietro di sé un paesaggio di rovine tale e quale a quello che avevano trovato, già allestito, a Pompei. Solo un po’ più umido. Piazza San Marco, il Bacino, ogni pontile della Giudecca erano devastati. Un disastro postmoderno o forse un presagio di altre gigantesche, mortali minacce che sarebbero arrivate dai mondi nuovi. Però era trent’anni fa, era ancora la Venezia dell’ultimo doge, Gianni De Michelis, che sognava di portare in Laguna persino l’Expo universale e di aprire così, a suon di eventi globali, una nuova bocca di porto della città verso la modernità.
I Pink Floyd furono le grandi navi degli anni 80: una necessità di futuro e una minaccia. Ma loro, per fortuna, passarono una sola volta. Invece quelle città galleggianti, più alte di case e palazzi, davanti a San Marco ci passano due volte, andata e ritorno. Una media di due navi al giorno. Le crociere sono come il rock: un possibile disastro, ma anche l’ultimo, disperato tentativo di salvare Venezia da se stessa. Di provare un’alternativa alla ideologia della museificazione – che è la vera causa della disneyzzazione selvaggia, non viceversa. Dal pensiero unico di tutti i “se Venezia muore”, di tutti i Salvatore Settis, del Comitato No grandi navi - Laguna Bene Comune. O dei grillini che ieri scrivevano sul sacro blog “Fuori le grandi navi da Venezia!”, ma che a Roma hanno un ministro ufficialmente responsabile del dossier che da un anno tiene bloccato il via libera all’unico progetto al momento sul tavolo di una rotta alternativa per le grandi navi. Progetto approvato dal “Comitatone” interministeriale e delle autorità locali e caldeggiato dal sindaco Luigi Brugnaro e dal governatore Luca Zaia.
Dire no alle grandi navi, dirlo in quel modo da grillini, è il miglior modo per far sì che continuino ad affacciarsi davanti a Palazzo Ducale. Navi che stazzano 60 tonnellate non possano passare di lì, è semplicemente ovvio. Ma le celebri fotografie di Gianni Berengo Gardin hanno questo effetto incredibile: che rendono ciechi. Così che a Venezia il partito “sì grandi navi” resiste. Magari non proprio alla Punta della Dogana, questo no, ma da qualche parte devono passare. E’ business, è turismo. Così un compromesso va trovato: perché non si riesce a trovare un altro modello di business e di turismo, perché si sono persi troppi decenni a rifiutare la modernità. Il vero tema di oggi è questo.
Il progetto di fare entrare le navi dalla bocca di Malamocco e farle transitare verso il Porto Marittimo scavando in maggior profondità il canale Vittorio Emanuele, in modo che queste balene bianche che danno la caccia agli umani ma portano turisti e quattrini possano continuare ad arrivare è sensato, è una via di mezzo, un compromesso instabile come tutta la laguna. Soltanto che rimane lì, bloccato dal governo che ora si prende un’altra dose di randellate da Salvini, che sta al governo anche lui ma stavolta può evitare di far troppe giravolte: gli basta sostenere le idee dell’amico Zaia. Ma intanto le occasioni si perdono, e Venezia non è l’oriente, è uno specchio italiano. Il cambio di rotta delle grandi navi era stato deciso già nel 2012, governo Monti, e non è bloccato solo dalle lungaggini e dalle scempiaggini, ma perché dietro i comitati del No (no a tutto, a tutte le navi) oggi c’è la base del M5s come ieri c’era una precisa visione ideologica. Così scrutando il mare aperto non si intravvede nessuna soluzione stabile per la Laguna. E’ dai tempi in cui Venezia sognava l’Expo che la carta della modernità si è perduta più di una volta, periodicamente. Basta pensare al Mose.
Poi il simbolo del male sono diventate le navi. Prima del progetto approvato dal Comitatone, ai tempi di Monti c’era stato il decreto Clini-Passera (nel 2012) che vietava il transito. Ma il susseguente progetto, in epoca governo Letta, per scavare un nuovo canale artificiale più a ridosso di Marghera, il progetto detto di Canale Contorta fu bocciato da comitati tecnici, scientifici, ambientalisti. Non si fece nulla nemmeno del progetto forse più sensato, o almeno di più lunga portata, ai tempi del sindaco Giorgio Orsoni, che sognava di trasferire completamente il porto passeggeri a Marghera. Noi bischeri di terra ferma, politici e giornalisti compresi, ci immaginiamo che la laguna (di cui ormai tutti abbiamo imparato che è un organismo vivente) sia anche immutabile. Invece, per limitarsi agli ultimi 150 anni, la laguna è stata trasformata, sono stati scavati canali che non c’erano (quello dei Petroli, ad esempio). Che sia andato sempre tutto bene, nessun veneziano d’acqua mai lo dirà. Ma Brugnaro è veneziano di terra, e Zaia veneto di monti addirittura. Sanno che le cose vanno cambiate. Il punto non è di certo abbandonare il business, dire no al turismo, ma cambiare modello di business, di turismo. Lo stesso Brugnaro sta provando a regolare i flussi di turisti mordi e fuggi in città, e regolare anche la “alberghizzazione” eccessiva, che corrode il mercato, toglie spazio ai residenti. Ma l’alternativa non può essere di certo la museificazione. Impedire alle navi di passare dal centro storico di Venezia non deve essere imposto solo come una punizione, anche se i grandi player della crocieristica internazionale non ci sentono. Un nuovo porto, una nuova rotta e l’offerta di uno stile diverso di entrare in città, al posto dell’“inchino” dalla nave sarebbe ciò che serve. Perché se questo diverso modello di business del turismo non passa, vince chi rinuncia semplicemente alla modernità.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio