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Roma e l'emergenza abitativa perenne

Samuele Maccolini

Le occupazioni nella capitale sono il risultato di un sistema inefficace di gestione delle case popolari. Un problema tutto italiano. Forse la soluzione è un piano nazionale di rigenerazione urbana 

La mattina del 15 luglio, dopo più di dieci ore di trattativa, le forze dell'ordine hanno sgomberato l'ex scuola di via Cardinal Capranica, situata nella borgata di Primavalle nel nord-est di Roma. Al suo interno, da quasi vent'anni, vivevano duecento persone tra cui un'ottantina di bambini. La vicenda ha fatto scalpore, anche per via di una foto toccante di un fanciullo che porta via i suoi libri stretti al braccio, seguito dall'occhio vigile degli agenti. In poche parole: ancora una volta lo spazio dell'informazione è stato attraversato da un'ondata di compassione. Un po' come è successo in occasione dello sgombero del Baobab a novembre dell'anno scorso, una specie di baraccopoli gestita da diversi volontari che da oltre due anni offriva un tetto per decine e decine di migranti. Spesso, però, farsi guidare dall'emotività isola dal contesto in cui le vicende accadono. In questo caso il contesto è Roma, una città dove le occupazioni non sono l'eccezione, bensì la regola.

 

Nella capitale sono infatti una novantina gli stabili occupati, spesso edifici di proprietà pubblica come scuole o ex uffici di agenzie pubbliche. Tra i più noti troviamo l'ex stabile dell'Inpdap – poi confluito nell'Inps – di via Santa Croce in Gerusalemme: un edificio di 25.000 metri quadri inutilizzato da anni. Mentre in via Caravaggio, nel quartiere di Tor Marancia, nella proprietà della Oriental Finance srl, appartenente alla famiglia Armellini, vivono circa quattrocento persone. Alcune edifici nel tempo sono stati sgomberati. Come l'ex fabbrica della Pennicillina sulla Tiburtina, sgomberata a dicembre del 2018 e rioccupata una quarantina di giorni dopo.

 

Il motivo di tali occupazioni va ricercato nell'assenza di strutture per accogliere le persone in difficoltà. Nella capitale sono 13 mila le famiglie ferme in graduatoria che aspettano di entrare nelle case popolari. Il comune assegna ogni anno tra i 400 e i 500 appartamenti. Una casa e mezzo al giorno. Le case che vengono affidate derivano da sgomberi o da riconsegna chiavi: nessun nuovo alloggio sociale viene costruito. Ciò significa che una persona deve aspettare in media più di vent'anni per entrare in una casa popolare. Così si arriva al punto di rottura. Si occupa. Ne seguono gli sgomberi da parte delle forze dell'ordine. A Roma dieci famiglie al giorno vengono rimosse dalle abitazioni occupate, 2800 all'anno. Nello stesso lasso di tempo vengono registrate tra le 5 e le 6 mila sentenze di sfratto di cui il 90 per cento di morosità incolpevole. Tradotto: chi occupa lo fa perché non ha alternativa.

 

Possiamo parlare di emergenza abitativa nella capitale? Secondo Massimo Pasquino, segretario nazionale dell'Unione degli Inquilini, il più longevo sindacato degli inquilini in Italia – esiste dal 1968 – “il termine è fuorviante”. Meglio descrivere la situazione alla luce di una “vasta precarietà e disagio abitativo”. Questo perché non è vero che negli ultimi anni ci sia stata un'impennata delle occupazioni: “L'emergenza è atavica”. Inoltre la risposta più diffusa all'emergenza abitativa sono le cosiddette politiche emergenziali. Queste politiche sono sempre più diffuse e sebbene limitino il problema nel breve periodo, alla lunga risultano inefficaci. “In Italia abbiamo circa 650 mila famiglie in attesa di entrare nelle case popolari”, spiega Pasquini. Queste persone non vivono solo nelle grandi città, ma anche nei centri medi e piccoli, che figurano come i luoghi più a rischio abitativo. “Ogni anno 30 mila famiglie vengono sfrattate dalla forza pubblica. Come è possibile che la risposta sia rinchiudere le persone in residence ed alberghi?”. Le politiche emergenziali costano anche una grossa quantità di soldi pubblici. A Roma, ad esempio, vengono spesi 30 milioni di euro ogni dodici mesi per mantenere 1200 famiglie nei residence. 2 mila euro al mese a famiglia, che potrebbero essere spesi per pagare un affitto e lasciarsi alle spalle un sistema assistenzialista.

 

Secondo Pasquini per sbloccare la situazione bisogna pensare in grande. “Il nostro paese necessita di un vasto piano nazionale di rigenerazione urbana e recupero del patrimonio urbano inutilizzato”. In Italia infatti esistono centinaia e centinaia di immobili vuoti che potrebbero essere ridistribuiti tra le famiglie in difficoltà. Un po' come sta succedendo a Berlino, dove un imponente movimento popolare, in risposta ad un incontrollato aumento degli affitti, sta lottando per ridistribuire tra i cittadini l'enorme quantità di alloggi sfitti della capitale tedesca. Dopotutto è proprio l'articolo 42 della Costituzione italiana che indica come la proprietà privata possa essere, nei casi preveduti dalla legge, espropriata per motivi di interesse generale. Magari possiamo non arrivare a tanto. Forse, basterebbe investire di più sugli alloggi sociali.