Vox Media si compra il New York Magazine
È solo l’ultimo episodio nella saga infinita di salvataggi di illustri testate, spesso coi magnati della Silicon Valley che, forse per senso di colpa, si comprano prestigiose pubblicazioni. E questa volta potrebbe funzionare davvero
Non sarà forse una notizia che butta giù dal letto le masse globali, però il New York Magazine che cambia proprietario scuoterà almeno le ztl più riflessive del globo già scosse dalle piccole ambientaliste millenariste. Se l’è comprato l’arrembante gruppo digitale Vox Media, e passa così di mano la leggendaria rivista, una via di mezzo tra il New Yorker e Page Six, cioè un New Yorker però meno punitivo, in grado non solo di troneggiare su coffee table identitari, ma addirittura d’esser compulsato e talvolta letto. Era nato negli anni Sessanta come supplemento domenicale al New York Herald Tribune, poi divenne ricettacolo del meglio journalism vecchio e nuovo, ospitando per esempio Tom Wolfe che qui scrisse per primo il reportage eponimo Radical Chic poi diventato volume, storia di una serata particolare dai Bernstein (molti articoli del Ny Magazine son diventati cultura americana, un reportage sugli svaghi dei giovani proletari divenne “La febbre del sabato sera”). E poi ci furono Nora Ephron, e i racconti di Woody Allen. Comprata negli anni settanta da Murdoch, la rivista ha cavalcato gli anni ottanta e i novanta e i duemila, sprofondando poi come tutti nella crisi forse fatale odierna. Nel 2014 è diventata bisettimanale, qualche mese fa ha issato il drastico paywall, per tamponare le perdite micidiali; infine la famiglia proprietaria, i Wasserstein, che l’aveva rilevata anni fa da Murdoch, ha trovato l’agognato compratore.
Ma a marzo già aveva lasciato Adam Moss, il direttore che ne aveva consolidato l’identità, vincendo premi, Pulitzer e non solo, soprattutto abituando a copertine leggendarie come quella di Bernard Madoff coi baffi da Joker o quella del procuratore Eliot Spitzer, già moralizzatore di Wall Street poi beccato recidivamente con prostitute alberghiere, qui effigiato con la scritta “Brain”, cervello, appuntata però sulle sue parti intime; la copertina migliore secondo Moss, che dalla natia Brooklyn aveva fatto tutta la gavetta al Times, e poi a Esquire e al Village Voice, poi di nuovo al Times dove divenne direttore del supplemento domenicale. Autobiografia tipografica newyorchese, da quindici anni al Ny Magazine, Moss è stato uno dei primi giornalisti apertamente gay e apertamente foodie della scena mainstream americana: ha portato al Times nuove energie e firme oggi fondamentali, come lo scrittore di cibo e cervello Michael Pollan o il contrarian gay-cattolico-conservatore Andrew Sullivan. Non era però un nostalgico della carta stampata, Moss, che ha lanciato invece derivati digitali di successo, tra cui il femminile The Cut, e il cultural-pop Vulture, in linea con la ricetta tradizionale che aveva imposto al Ny Magazine, il mistone alto-basso “at its best”, impacchettato in una grafica provocante-classica su carta croccante (inizialmente addirittura disegnata da Milton Glaser).
L’acquirente di tanta storia, Vox Media, ha fatto le promesse del caso, e cioè che l’indipendenza della acquirenda sarà rispettata, e che non ci saranno licenziamenti. Vox del resto va abbastanza bene, è valutata 1 miliardo, fa anche un piccolo attivo di bilancio, dopo aver puntato in particolare sui video e sui podcast ribellandosi al modello della pubblicità online che espone ai carotaggi di Google e Facebook. Adesso la fusione – tutta in azioni, neanche un denaro passerà di mano, per dire i tempi, grami – e quello del Ny Magazine non è che l’ultimo episodio nella saga infinita di consolidamenti, ricapitalizzazioni, salvataggi di illustri testate, spesso coi magnati della Silicon Valley che forse per senso di colpa si comprano per due spicci decotte ma prestigiose pubblicazioni (la moglie di Steve Jobs s’è presa l’Atlantic, il magnate di Salesforce Mark Benioff il Time, con business model improntati soprattutto alla beneficienza).
Anche a livello locale, un disastro: decine di quotidiani americani si son fusi con mésalliance che hanno accelerato invece che rallentare la strage. Enti come la Knight Foundation finanziano nuovi modelli di giornalismo locale senza profitto: anche il Ny Magazine ultimamente si era alleato con un giornalino locale noprofit, The City: insomma, ognuno prova a sopravvivere come può. Vox però potrebbe essere un alleato giusto. Pubblica i tecnologici di successo The Verge e Recode, l’architettonico Curbed, e soprattutto Eater, sul cibo, come ti sbagli: l’unico settore su cui qualcuno pare disposto oggi a spendere qualcosa, per leggere, perfino, oltre che per mangiare. Con redazioni nelle principali città americane, e un primato morale-editoriale nel suo campo, avendo scalzato il defunto effimero The Lucky Peach: meteora editoriale molto rimpianta, e scomparsa, una volta tanto, non per insuccesso, bensì per un devastante conflitto tra editori molto gourmet. E altrettanto egotici.