Povera Matera, da Capitale europea della cultura a parco giochi delle libertà
Arrivano i freerunner e distruggono tetti, comignoli, muretti
Roma. “Sono forte sì però sono anche fragile”, è un verso di una canzone di Elisa che abbiamo mandato tutte a qualcuno, la scorsa primavera, per dirgli, ehi, fai attenzione con me, sono più Dolce Candy che Wonder Woman, anche se sembra il contrario. Ed è, quel verso, pure la descrizione perfetta di una città, Matera, che ci esce dalle orecchie, per quanto ne sentiamo parlare, e quante cose vengono lì fatte, girate, suonate, sperimentate. Inevitabile, perché è Capitale europea della cultura e perché sta in un sud particolare, un sud a sud del sud, sul quale in pochi, fino a qualche anno fa, avrebbero scommesso. E invece, bum.
Tuttavia, sebbene molto insistito, il racconto della città è stato ed è piuttosto impreciso, talvolta superficiale, quindi irresponsabile. Dev’essere stato per questo (anche per questo) che a Matera, da un certo momento in poi, a partire dall’anno scorso, ci si è convinti che si potesse fare tutto, perché la città è tanto antica quanto, s’è detto, inesplorata, vergine, selvaggia, selvatica, fortissima, granitica – “Sguardo granitico come Matera”, ha scritto l’Huffington Post di Imma Tataranni, la protagonista della omonima fiction Rai, ambientata nella “città dei Sassi”.
Solamente che Matera non è né granitica, né inespugnabile, anche se lo sembra. E’ friabile, invece, e delicata, e porosa, un ex parco marino fatto di calcarenite, che è sabbia sedimentata in secoli, non marmo. Non regge tutto, e porta il segno di qualsiasi cosa le passi sopra, la attraversi, la solchi. Gente molto sportiva compresa.
Sabato scorso c’è stato lì il Red Bull Art of Motion, gara internazionale di free running, meravigliosa disciplina simile al parkour, ma più acrobatica – i freerunner s’arrampicano, corrono, saltano, scalano dappertutto, e più l’ambiente in cui lo fanno è impervio e meglio è. Matera, mozzafiato e selvaggia com’è, dev’esser parsa il posto perfetto per ospitare questi “splendidi Icaro contemporanei, che però evidentemente sapevano molto poco della città”, dice al Foglio il presidente della Fondazione Sassi, Vincenzo Santochirico, due giorni di polemiche dopo, giacché molti freerunner sono finiti in ospedale con fratture multiple e nei Sassi, patrimonio Unesco (qualcosa vorrà pur dire, almeno in termini di necessità di accortezza e tutela) si stanno ancora calcolando i danni della spericolata invasione: comignoli divelti, tegole dei tetti sfondate, muretti distrutti, e ragazzetti abbarbicati sui campanili delle chiese e sui balconi di case private.
L’evento è stato patrocinato da Comune e Fondazione Matera Basilicata 2019, che avevano però concesso uno spazio circoscritto agli atleti, per salvaguardare tanto la loro incolumità quanto quella del rione antico, quello che ha fatto della città la cartolina internazionale dell’anno, il “luogo ideale” dove incubare un’idea nuova di Europa e spazio urbano e interazione tra uomo e paesaggio. A competizione finita, però, alcuni freerunner (molti fuori gara), si sono spinti oltre la zona assegnata loro e hanno cominciato a svolazzare ovunque. E’ successo il finimondo. I materani, che da assai prima che il 2019 iniziasse si sono adattati, con variegati livelli di pazienza, a restrizioni di ogni tipo, dalla fruizione dello spazio pubblico alle normative sulle modalità abitative (comunque benedette), non hanno reagito bene e non tanto (o non solo) perché l’episodio rinvigorisca la polemica, sempre molto viva, sulla “turistizzazione” (che brutta parola, scusate) della città, eccessiva e indiscriminata, quanto perché colpisce un altro nodo scoperto, parecchio più delicato, e cioè quale sia l’idea sulla destinazione d’uso del suo quartiere gioiello. “Non possiamo lamentarci dell’invasione di b&b e ristorantini, e poi permettere che la città venga esposta a manifestazioni dagli esiti incontrollabili per l’ordine pubblico e per la sicurezza dei nostri tesori. E’ inutile denunciare la mercificazione, se poi si consente che un patrimonio artistico e architettonico diventi un parco giochi”, dice Santochirico.
Il vice sindaco, Giuseppe Tragni, ha detto: “Qualcosa è sfuggito, ma è anche fisiologico in una manifestazione di massa”. Qua sta il punto: se una manifestazione di massa ha effetti imprevedibili, è necessario che si tenga in un posto che, alla luce della sua struttura e della sua vulnerabilità, risulta inadatto a ospitarla? Oppure il qualcosa che è sfuggito è di cos’è fatta Matera, e cosa se ne vuole fare, tanta è la fregola di esporla, allargarla, forzarne l’ospitalità dopo secoli di chiusura, solitudine, indocilità?
Povera Matera, forte sì, però anche fragile. Una delle poche città al mondo che s’è insediata in un territorio senza insidiarlo mai. Come tutte, costruita per essere riparo, ma come nessuna quasi del tutto priva delle strutture difensive che, come scrive Marco Filoni nel suo saggio sulla paura nelle città (“Anatomia di un assedio”, ed. Skira), dimostrano come abitiamo in “una matassa indistinta e confusa di paure, che tuttavia abbiamo costruito per esiliare”. Che paradosso.