Acqua alta e burocrazia. A Venezia l'emergenza è l'ideologia
Incalza: “L’Italia chieda che le risorse destinate al Mose vengano scorporate dai calcoli per i parametri di Maastricht”
Roma. Ercole Incalza la definisce un’“opera unica”. “Per rilevanza ingegneristica, per complessità, per eccellenza tecnologica: il Mose non ha eguali. E tuttavia il nostro paese non può dirsi soddisfatto perché l’intero progetto è stato accompagnato da ritardi gravissimi. Soltanto oggi, di fronte al dramma, prendiamo coscienza del valore del tempo”, così l’ingegnere, già a capo della struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture, super imputato che ha subìto diciotto inchieste, sempre prosciolto e assolto, si sofferma sul caso di un’opera eterna. “Dopo l’‘aqua granda’ del ’66 si sono impiegati trentasette anni per passare dall’idea di un’opera indispensabile alla sua effettiva progettazione. Si è giunti al cantiere vero e proprio soltanto in seguito all’approvazione della legge obiettivo del 2001”. Una legge che a lei ha portato diversi guai giudiziari ma che ha sbloccato il Mose, il passante di Mestre, il Brennero, la Torino-Lione, la Salerno-Reggio Calabria, le metropolitane di Torino, Milano, Roma… “Ci hanno criticato perché, nella progettazione delle opere, non avremmo seguito un criterio di priorità. Il programma della suddetta legge, fino alla mia uscita dal ministero alla fine del 2014, includeva ottanta opere già appaltate o cantierate o completate per un valore di circa ottanta miliardi. Sfido chiunque a mettere in dubbio la priorità delle opere da lei citate”.
Il Mose sembra il cantiere dei ritardi infiniti. “Io rivendico la funzione della struttura tecnica di missione, non per spirito nostalgico ma perché senza di essa e senza l’istruttoria del Cipe saremmo rimasti fermi alla vecchia logica delle perizie di avanzamento parziale delle opere, alla logica della difesa della laguna attraverso segmenti di opere. All’epoca nessuno riteneva credibile che saremmo riusciti a garantire le risorse adeguate per consentire la realizzazione organica di un sistema di paratoie che avrebbe in futuro evitato di perdere un patrimonio dell’intera umanità. Fino al 2001 non si era andati al di là di meri approfondimenti progettuali, senza una logica programmatica basata su impegni certi e sulla volontà di governo”. Volontà testimoniata dai finanziamenti. “Su un costo complessivo di 5,4 milioni, lo stato ha garantito fino al 2014 la copertura di circa 4,8 milioni, vale a dire l’87 per cento dell’opera. Si era a un passo dal completamento della più grande opera puntuale del dopoguerra che, aggiungo, dal 2005 al 2014, tra occupati diretti e indiretti, ha impiegato oltre 4 mila persone”.
Oggi si è al 94 percento dell’opera: l’ultima tranche di 200 milioni è ferma al Provveditorato di Venezia per cavilli burocratici. “Mi metto nei panni dei commissari: tra rischi di contenzioni e presunti danni erariali, non svolgono un mestiere facile. La burocrazia è diventata una camicia di Nesso”. In Italia le opere sono spesso considerate “inutili” finché non capita la tragedia. “C’è una diffusa ideologia contraria al progresso e allo sviluppo. Ciò che è accaduto, dal 2015 ad oggi, è gravissimo: un’opera in mare che, per definizione, non può essere sospesa è stata bloccata. Fermando i cantieri esposti ai processi di deterioramento legati all’acqua, si perde in modo irreversibile quanto già realizzato”.
Insomma: ideologia e lungaggini burocratiche sono un mix letale. “Pietro Nenni amava dire che le idee camminano sulle gambe degli uomini. Dal 2015 ad oggi forse sono mancate le persone determinate a realizzare un’opera che, per giunta, è stata sottoposta a una verifica di impatto ambientale straordinaria e su cui l’Unione europea ha posto precisi vincoli. Anzi, essendo Venezia patrimonio dell’Europa intera, il nostro paese potrebbe chiedere che le risorse destinate al Mose vengano scorporate dai calcoli per i parametri di Maastricht”.
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