Benedetta Tobagi replica a Sofri sulla riapertura del caso Pinelli
La figlia del giornalista risponde all'articolo pubblicato sul Foglio
Al direttore - Insieme a tanti, milanesi e non, ho partecipato, negli scorsi giorni, alle molte iniziative organizzate per commemorare Pino Pinelli. Come tanti cittadini, considero la mancanza di verità sulla sua morte una ferita profonda. Per questo credo sia importante correggere alcuni punti dell’articolo dello scorso 14 dicembre in cui Sofri invoca la riapertura delle indagini, ma con un testo pieno di errori (o volontarie mistificazioni?), sofismi e reticenze, esempi di modalità retoriche e di un atteggiamento che a tutto portano, fuorché alla verità, che necessita di rigore e onestà intellettuale.
Sofri pone la testimonianza dell’anarchico Pasquale Valitutti come pietra d’inciampo sul cammino delle ricostruzioni della notte del 15 dicembre alla questura di Milano, quando Pinelli morì. Ma, cito testualmente dal libro (menzionato dallo stesso Sofri) di Gabriele Fuga ed Enrico Maltini, “Pinelli. La finestra è ancora aperta”, pp. 213: “Lello Valitutti, che dallo stanzone dei fermati poteva vedere il corridoio, ha sempre detto che non vide Calabresi uscire dalla stanza e dirigersi verso lo studio di Allegra. Al quarto piano c’erano però altri uffici, oltre a quello di Calabresi ove si svolgeva l’interrogatorio, e che Valitutti non poteva vedere, e sotto il quarto piano c’è il terzo collegato con scale di servizio. Dunque frotte di persone potevano entrare e uscire dalla stanza di Calabresi senza essere viste, ivi comprese quelle non poche che, come ha spiegato Carlucci, dovevano restare riservate e così restarono per ben 27 anni!”.
Nelle pagine successive, con tanto di piantine della questura, e dopo aver considerato molti testimoni (non solo Antonio Pagnozzi, che parla di una scrivania per Russomanno collocata nell’ufficio di Allegra: ma forse quando il vertice degli Affari riservati era a Milano in veste ufficiale, come risultava dagli atti del 1969-70, e non in via riservata e con una nutrita squadra), ipotizza che il personale degli Affari riservati giunto di nascosto da Roma stazionasse in uffici al terzo piano, facilmente raggiungibile dalle scale di servizio contigue all’ufficio di Calabresi, e invisibili dal punto dov’era Valitutti. La ricerca più approfondita finora pubblicata sulla morte di Pinelli (coautore un anarchico) prospetta dunque uno scenario che elimina le contraddizioni tra la sua testimonianza e l’assenza di Calabresi, attestata dalla sentenza D’Ambrosio. La ricerca storica sottopone al vaglio critico le testimonianze e talvolta – lungi dall’essere lo “specchio deformante” cui dovrebbero rassegnarsi i “testimoni duri a morire” di cui scrive Sofri – riesce a sciogliere apparenti contraddizioni, come abbiamo poi spiegato agli studenti di Storia presenti al convegno su Piazza Fontana alla Sapienza del 4 dicembre, “Noi sappiamo e abbiamo le prove”, a cui Sofri fa riferimento. In quella sede ho provato, ripetutamente, a domandare al Valitutti come rispondeva alla ricostruzione del suo compagno Maltini e dell’avvocato Fuga (a cui i miei scritti, contro cui lui si scagliava, fanno riferimento). Mi ha ignorato, ripetendo imperterrito la sua versione. E Sofri, che pure afferma di aver ascoltato due volte la registrazione, mi attribuisce frasi che non solo “non sono testuali”, ma alterano in modo significativo tono e senso del mio discorso. Non le affermazioni apodittiche da far saltare sulla sedia che mi attribuisce, ma: “Tra le varie cose che possono essere successe, e che corroborano quanto è stato affermato, nella ricostruzione di D’Ambrosio rispetto […] alla non presenza di Calabresi, contestata dalla testimonianza di Valitutti, presente in questura, [Fuga e Maltini] per esempio dicono, essendoci queste persone che non stavano nell’ufficio di Allegra, stavano da qualche altra parte, ed erano loro i veri capi dell’inchiesta in corso [su piazza Fontana], una persona poteva anche uscire ad andare a raggiungere il personale di Russomanno” (per facilitare i lettori, da 3:12:44 nella registrazione di Radio radicale). Potrete sentirmi dire, poco dopo: “Tutti hanno mentito” (sul suicidio di Pinelli, fatto riconosciuto a più riprese anche dal Quirinale) e “non c’è stata nessuna santificazione del commissario Calabresi che è stato assassinato il 17 maggio 1972” (da Lotta continua, secondo sentenze passate in giudicato, mandanti Sofri e Pietrostefani, esecutori Bompressi e Marino, e non “da un sicario”, come ha scritto di recente Enrico Deaglio sul Venerdì di Repubblica).
“I lettori comuni sono distrattissimi”, scrive Sofri, “perfino i più sensibili al tema”. Ma lui pare proprio non averlo letto, il libro di Fuga e Maltini. Tra l’altro, gli autori del saggio non scrivono (come fa invece Sofri) che nel piccolo ufficio di Calabresi si fossero affollati tutti insieme 10 o 15 uomini dell’ufficio Affari riservati: sarebbe sembrata la nota scena della stanza affollatissima del film “Una notte all’opera” dei fratelli Marx. Fuga e Maltini, sulla base delle informazioni disponibili, concludono: “In quei piani alti della questura i chi, i dove e i quando sono sempre stati molto incerti”. E lì siamo, purtroppo.
Sofri rimprovera alla pm Maria Grazia Pradella di non aver chiesto a Russomanno dove fosse, durante l’interrogatorio di Pinelli. Su questo sta a lei rispondere. In base al materiale disponibile, però, viene da chiedersi come avrebbe potuto verificare la veridicità dell’eventuale risposta. Fuga e Maltini, al termine del saggio, chiedevano la riapertura delle indagini. Chi ha studiato un po’ vicende di questo genere, sa bene però che questa necessita quasi sempre dell’impulso decisivo di documenti che siano risolutivi anche sui fatti specifici (e speriamo che le ricerche serie continuino!), o di collaboratori di giustizia, oppure di testimoni che raccontino senza reticenze tutti i fatti, anche scottanti, di cui sono a conoscenza. Sofri sarebbe nella posizione di offrire un luminoso esempio di trasparenza, se volesse. In due articoli pubblicati su questo giornale il 27 e 29 maggio 2007, infatti, Sofri ha raccontato che, intorno al 1975, l’ex dominus degli Affari riservati in persona, Federico Umberto D’Amato, gli propose di compiere “un mazzetto di omicidi” (testuale), garantendogli impunità. D’Amato è morto nel 1996, dunque non poteva commentare, confermare o smentire. Tuttavia, in un interessante documento rinvenuto dopo la sua morte, un abbozzo d’autobiografia dal titolo “Memorie e contromemorie di un questore a riposo” (agli atti del processo per la strage di Brescia e citato dallo studioso Giacomo Pacini nella sua “Storia degli Affari riservati”), D’Amato raccontava dei rapporti amichevoli, a fini di lavoro, con personaggi “come Adriano Sofri (con il quale ci siamo fatti paurose e notturne bottiglie di cognac)”. Aldo Giannuli mise in dubbio la veridicità del ricordo, dicendo che Sofri è astemio (non so se sia vero), ma a leggere la frase, specialmente dopo le rivelazioni dell’interessato, nulla vieta di ipotizzare che mentre il gourmet D’Amato sorseggiava alcolici d’annata, Sofri bevesse, che so, chinotto. Dopo un vespaio di polemiche, tutto tacque. L’ennesimo scambio indiretto di messaggi allusivi, ambigui e omertosi intorno a vicende degli anni Settanta su cui permangono spesse coltri di nebbia. Dal 2007, siamo in tanti ad aspettare che Sofri, e magari anche altri, per esempio l’ignoto “conoscente comune” che lo mise in contatto con D’Amato, parlino davvero, anche di questi rapporti con l’ufficio Affari riservati. A maggior ragione dopo le rivelazioni, le inchieste e gli studi che Sofri ricorda. Anziché limitarsi a lamentare le reticenze altrui, vuole dare coraggiosamente l’esempio, per le vicende di sua conoscenza e competenza, così da ispirare altri che, forse, potranno aggiungere tasselli o dare documenti utili per capire cosa accadde davvero a Pino Pinelli, e magari portare a una riapertura delle indagini? Altrimenti, duole dirlo, sembra il bue che dà del cornuto all’asino.
Benedetta Tobagi, scrittrice e studiosa autrice di “Piazza Fontana. Il processo impossibile” (Einaudi 2019)
Risponde Adriano Sofri. Ehilà. Ho obiettato a una frase, che mi era parsa “sfuggita”, di Benedetta Tobagi nel dialogo imprevisto con Pasquale Valitutti. Ho allegato il link alla registrazione, che mi sembrava notevole, com’è l’incontro fra un testimone e una storica. “Errori (o volontarie mistificazioni?), sofismi e reticenze, esempi di modalità retoriche e di un atteggiamento che a tutto portano, fuorché alla verità…”, che Tobagi ha letto nel mio scritto, mi dispiacciono molto, ma riguardano lei. Dunque rispondo qui sul punto evocato. Valitutti, che aveva la visuale aperta sul corridoio su cui dava l’ufficio di Calabresi, dice da cinquant’anni di non averlo visto passare per andare dalla sua stanza in quella di Allegra. Fuga e Maltini spiegano (come mi conferma Gabriele Fuga) che all’ufficio di Allegra, Calabresi, e chiunque altri, avrebbe potuto andare da un altro percorso che non fosse quello dalla sua stanza, come avvenne forse, suggeriscono, ma mezz’ora prima della defenestrazione di Pinelli. Il quale era allora interrogato, nella loro ipotesi, da Russomanno: elemento degno o no di una riapertura del caso? Per intenderci: non penso alla particolare riapertura dell’inchiesta sulla morte di Pinelli, ma di quella intera sul concorso in strage. Del resto, caso mai, un’altra volta: avrei dovuto bere forte davvero con D’Amato per scrivere ancora oggi, come Tobagi mi addebita, che nella stanza c’erano i 10 o 15 ceffi degli Affari riservati.