Vivere la distanza
Chissà che il coronavirus non spinga l’uomo a ricercare il fondo della sua urgenza comunicativa
Due anni fa mi trovavo a Tokyo per lavoro: essendo domenica, ho cercato e trovato una messa cattolica, forse anche per sentirmi un po’ a casa. La cosa che mi ha segnato maggiormente di quell’esperienza e lasciato con una percezione di incompiutezza non è stata la difficoltà linguistica (la stessa situazione l’avevo vissuta a Bolzano). Quello che mi è rimasto impresso è accaduto nel momento dello scambio del segno di pace: non si danno la mano! Ci sono rimasto male (del resto non si toccano neanche in metropolitana). Per un latino, l’esperienza è strana, un sentore che dice “manca qualcosa”. In realtà, paradossalmente, non mancava niente.
Mi chiedo, allora, da dove sia venuto quel sentore. Da dove viene quella spinta che ti porta a “toccare” l’altro in certe situazioni e a sentire una mancanza quando questo ti è sottratto, impedito, centellinato? Da dove è venuto il sentimento di stupore e disagio della Merkel quando si è vista rifiutare, giorni fa, la stretta di mano da un suo ministro (che, per altro, non faceva altro che obbedire al decreto che lei stessa aveva imposto al paese)?
Vivere la distanza, “vivere in distanza”, grazie al Covid-19, ci costringe a fare un’esperienza strana, a interrogarci sulla banalità della comunicazione tattile e quindi del fondamento o dell’aspettativa di ogni tipo di comunicazione. Non poter dare la mano ad amici o a parenti, non poter abbracciare le persone care, misurare la distanza in centimetri (come fanno gli esperti studiando la prossemica o come rappresenta mirabilmente il film “A un metro da te”) ci provoca un disagio che potrebbe forse farci fare un passo in profondità, invece che esasperare l’estraneità.
Il contatto fisico (al di là dell’usuale distrazione o istintività con cui lo gestiamo) è la forma più invasiva della comunicazione interpersonale, quella attraverso cui siamo in grado di distruggere le relazioni più belle o di esaltare le premure più eccelse. I neonati, dicono gli studiosi, hanno nel canale sensoriale del tatto la prima forma di introduzione nel mondo, capisco il bene e il male principalmente in questo modo e, se ne sono privati, faticano a costruire in seguito un rapporto pienamente espressivo con la realtà.
E’ per questo motivo, forse, che, in mancanza di tatto, stiamo cercando creativamente di trovare altri canali per non perdere qualcosa per strada: la tecnologia, come aveva intuito quasi settant’anni fa McLuhan, funziona come extensions of man, una sorta di “protesi” dei nostri organi sensoriali per superare le distanze: mani che si allungano, orecchie che si allargano, occhi da supereroi, piattaforme per essere ovunque stando a casa (Classroom, Teams, Moodle, Zoom, Skype).
Facciamo di tutto, e anche di più, cercando di non perdere nulla per la strada. Ma nulla di che? Che cosa, in fondo, si nasconde dietro quel sentore di mancanza che si ripropone, anche quando magari tutti gli organi sensoriali sono disponibili, percorribili, performanti al massimo delle loro potenzialità? Che cosa realmente vorremmo “toccare” dell’altro, così oltre la portata dei nostri polpastrelli? E’ evidente che questi, una volta utilizzati, non soddisfano minimamente un’urgenza vertiginosamente più profonda. Di quale “contatto” abbiamo sete e fame, tentando con i sensi di arrivare a goderne e accorgendoci dell’inefficacia di ogni sforzo soltanto dopo una privazione o, al contrario, dopo una totalità di eccitazione sensoriale?
Il punto di arrivo, quello che sta al fondo, è la necessità che la comunicazione ricominci a significare per noi l’esperienza primordiale e travolgente di sentirsi di dire “Tu ci sei per me, io ci sono per te”, come abbiamo “sentito” la prima volta, venendo al mondo.
I latini avevo voluto sintetizzare tutto questo proprio nella parola e nella dinamica oggi così consunta della comunicazione: cum munis, “vengo a te, che sei un regalo per me, con un regalo per te”.
Quanto ricche le nostre protesi, quanto utili e quanto necessarie: tanto quanto lontane dal raggiungere l’obiettivo di una “fusione reciproca”, attraverso la materialità.
L’esimio collega francese Jean Duvignaud aveva intuito che il nostro interminato spirito creativo (così come l’urgenza artistica) deriva dalla necessità di trovare mezzi comunicativi straordinari, capaci di ricomporre “un’unanimità che salda di nuovo i frammenti di un’umanità divisa […] questa fraternità divenuta irrealizzabile prende la forma di un atteggiamento creativo ed efficace, ma in quanto nostalgia di una comunione perduta, in quanto sogno proibito, ravvivato incessantemente da un insopprimibile desiderio di fusione affettiva”.
Chissà se la coscienza della radice ultima di quel sentore primordiale non sarà in grado di risvegliare nell’uomo ipertecnologico e infobeso la voglia di ricercare il fondo della sua urgenza comunicativa: e chissà che tutto questo non cominci dal tatto.
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