Come sarà l'Italia dopo la grande pennichella
Forse è un’illusione, ma si può immaginare un paese che avrà alle spalle una teoria di lutti, grandiosità, solidarietà, bellurie anche, e davanti a sé una graduale, lenta ripresa di energia in cui si farà tesoro degli errori e anche delle cose buone e delle scelte fatte appena in tempo
Le retoriche italiane sono in genere insopportabili: la bellezza, il canto, la luna rossa. Ma ora con la zona rossa sono un giogo leggero, diventano tollerabili fino alla commozione, ora che un maligno ci caccia in casa, svuota le strade a forza e i parchi, riempie appartamenti e palazzi e balconi, ora il mandolino acquista un suo suono sobrio, perfino lui, come la chitarra, la schitarrata, la gola rischiarata, il corale di quartiere, tutto l’impasto di melodramma felice in mezzo alla sventura. Ora quel bruttacchione televisivo britannico, brexiteer dalla faccia triste, mostra la sua invidia rimproverandoci una pennichella nazionale scroccata al virus, e va bene così, nel nostro ozio forzato non abbiamo tempo di pensare a lui.
Certo ci sarà pure una specie di assalto alla diligenza pubblica, l’idea di comunità si sposa bene con uno schema di stato protettivo libero dalla libertà individuale, usciremo dall’emergenza più mammoni che mai, ma di sicuro ci faremo fottere un po’ meno dai profeti del climate change, la malattia che si vede sempre in tv ma non ci tocca a petto della malattia che ti entra nelle ossa e nei polmoni, che è parte inquietante della realtà del sistema sanitario, e dei suoi eroismi così poco canterini, abbiamo capito che i mali sono quelli che si toccano e che la riduzione delle emissioni ha il suo risvolto triste, tristo, malinconico e bolso. E molti auguri a Paolo Flores che è appena uscito con un suo insigne quaderno di Micromega intitolato “la terra brucia”, niente di originale ma in tempi di contagio freddo non è affatto male.
L’Italia dopo la grande pennichella possiamo cominciare a immaginarla già ora immersi nel sonno e nel demone meridiano. Avrà alle spalle una teoria di lutti, grandiosità, solidarietà, bellurie anche, e davanti a sé una graduale, lenta, lentissima ripresa di energia in cui si farà tesoro degli errori, si spera, e anche delle cose buone e delle scelte fatte appena in tempo, come sempre quando c’è di mezzo l’ignoto e si insinua la dittatura commissaria del caso, altrimenti detto destino. Di sicuro vedo nella palla magica tempi grami per gli spacciatori di certezze, per i poveri di umanità che non seppero guardare ai liberi e ai carcerati, per i preti troppo aridi – con magnifiche ma limitate eccezioni – definitivamente sostituiti dai dottori e dagli infermieri, per i litigiosi a cazzo di cane, per i no vax, per quelli che sparacchiano a caso ai neri, per gli incompetenti demagoghi antiglobalizzazione, ché senza non ci saremmo risparmiati il virus, capace di circolare magari più lento anche in tempi di scarsa comunicazione tra le persone e i villaggi, ma non avremmo avuto la mutua assistenza fulminante dei mercati e la tecnologia benigna, quella della ricerca, quella dell’intrattenimento, quella che ha reso possibile a milioni e milioni di compatrioti in tutte le patrie di godere della capacità di relazione detta smart working e della multilateralità del sistema postale integrato che non ci allontana più di tanto nel momento in cui finiscono gli abbracci, i toccamenti, le conversazioni amicali e intime.
Non parliamo degli effetti politici secondari, che sono primari, guardando al novembre prossimo americano. Non parliamone. Incrociamo le dita. Parliamo invece del torrente di alfabetizzazione spinta che potrebbe riversarsi sulle nostre abitudini: sono convinto che si vendono infinitamente meno libri perché finalmente se ne legge qualcuno in più, sono certo che l’evento del consumo culturale sciagurato e ciarliero non sarà così rimpianto, che la dimensione anche solitaria, benedetta, dell’emozione e del piacere, della gioia di raggomitolarsi in un testo avrà una presa che non aveva più da tempo e non lascerà poi facilmente la presa. E forse m’illudo, forse tutto tornerà come prima, che è quello che succede sempre quando la vampata della retorica, anche quella inutile, non in rima, non il canzoniere, ci suggerisce banalmente che niente sarà più come prima.