(foto LaPresse)

La rabbia, la paura, la rassegnazione

Giacomo Poretti

Ho superato i 15 giorni di disoccupazione. Per colpa di un tizio che neanche si vede. E basta un raffreddore per farmi tirare fuori la domanda più scomoda e antica: perché morire?

Uno sguardo d’autore sulla vita che cambia con la diffusione del coronavirus, l’emergenza sanitaria, la paura del contagio, l’Italia “chiusa in casa”. E’ quello che il Foglio propone con una serie di storie di scrittori e foglianti. Pubblichiamo un testo di Giacomo Poretti. Attore e sceneggiatore, 64 anni, Poretti fa parte del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo. Dello scorso anno il suo ultimo spettacolo teatrale: “Chiedimi se sono di turno”. Per “Io e il virus” abbiamo già pubblicato i racconti di Antonella Lattanzi (11 marzo), Aurelio Picca (12 marzo) e Nicoletta Tiliacos (13 marzo).  

 


 

Non sono mai stato disoccupato nella vita. Per fortuna. Quando avevo 13 anni sono andato in fabbrica a fare il metalmeccanico, sì sì, 13 anni, non si sarebbe potuto ma in tantissime piccole fabbriche era così. Quelli erano anni, gli anni 70, che dalle mie parti c’erano più fabbriche che case, se uno rimaneva senza lavoro dopo pochi giorni ne trovava subito un altro. Se aveva voglia.

 

A quei tempi, dalle mie parti, non esisteva la parola disoccupato, o meglio non era usata nell’accezione a cui siamo abituati ora e cioè di una persona senza un lavoro, ma piuttosto quando veniva pronunciata stava a significare che una tal persona non aveva voglia di lavorare: “Quel lì l’è un disocuupaaaà”; mio padre addirittura aveva la pazienza di traslitterarla: “Quel lì el g’ha minga voia de lauraà”. In quegli anni dalle mie parti se diventavi disoccupato (tecnicamente per gli anziani del bar Combattenti e Reduci, lo si diventava dopo 7 giorni di mancato lavoro) ti macchiavi di un’onta difficilmente cancellabile: tutta la tua generazione ne rimaneva colpita, e il cognome dello sfortunato non veniva più pronunciato in paese. Ma per fortuna c’era talmente tanto lavoro in quegli anni che a un certo punto sono persino finito in ospedale. A lavorare. Addetto alle pulizie.

 

Perché gli infermieri mancavano e mancano sempre; dopo un mese a pulire i cessi della “Chirurgia plastica e della mano”, mi hanno cambiato mansione: Infermiere generico facenti funzioni. La storia del facenti funzioni funziona un po’ come i condoni: vanno a sanare gli abusi, nel mio caso non avevo i titoli di studio per fare l’infermiere, ma del resto qualcuno degli ammalati si doveva pur occupare. O no? Per intenderci è un po’ come la proposta del presidente della Lombardia Fontana che ha detto di far fare gli esami a marzo anziché a giugno per i neo infermieri, così da assumerli subito e mandarli in corsia per affrontare l’emergenza causata dal quel figlio di… di quel microrganismo di mmmmm’…

 

Non è che sia sbagliata la proposta, al massimo se si laureano in marzo non avranno ancora studiato dialisi e assistenza al malato con colostomia, però sull’apparato respiratorio sapranno già tutto. Del resto qualcuno si dovrà occupare dei malati colpiti dal quel fetente di microrganismo del ca……! Comunque, vi stavo raccontando che non sono mai stato disoccupato. Neanche quando da infermiere sono andato a fare il comico. Per la verità in quegli anni, gli anni 80, i comici lavoravano tanto perché c’erano i locali dove si faceva il cabaret, le televisioni dove si inventavano i programmi per far ridere, i teatri, insomma se un comico non lavorava in quegli anni non era perché mancava il lavoro ma perché non faceva ridere. Il comico disoccupato era disoccupato perché “el fa minga rid” come diceva il proprietario di una balera di Vimodrone quando cacciava il cabarettista che andava a chiedergli il compenso dopo l’esibizione.

 

Se vi devo proprio dire la verità, il giorno prima di andare a fare lo spettacolo a Vimodrone ho incontrato i miei soci, quello meridionale e quello con i baffi che dimostra 79 anni, e da quel giorno il pericolo della disoccupazione non mi ha più sfiorato. Apparentemente. Ho 63 anni, e dopo 50 anni di lavoro, 48 per gli istituti previdenziali perché dai 13 anni ai 15 non si poteva lavorare e quindi le cosiddette marchette di quel biennio non esistono, sono in attesa della pensione senza neanche una settimana di disoccupazione. Fino al 23 febbraio. Quando arriva un’ordinanza: chiusura dei teatri, chiusura dei cinema!

 

Oramai ho superato i 15 giorni di disoccupazione. Per colpa di un tizio che neanche si vede. Se lo sapessero i miei antenati! Mio padre , i miei zii, i miei nonni, tutti lombardi da generazioni e generazioni, praticamente da quando esiste la Lombardia. Eppure temo che questa parola sarà molto pronunciata prossimamente nella mia regione dopo che per sfinimento avremo deposto l’altro vocabolo: contagio. Che si può fare quando si vive questa condizione oltre a tentare di scacciare la preoccupazione di iniziare a tossire?

 

E’ tutto ridotto ai minimi termini, all’essenzialità, ai gesti elementari, e le distrazioni che ci occupavano fino a un paio di settimane fa sono evaporate. Sto in casa la maggior parte della giornata assieme a mia moglie che lavora con Skype e a mio figlio che riceve lezioni dai suoi professori su Teams. Un comico disoccupato non ha una applicazione o una piattaforma digitale a lui dedicata, al massimo tenta di scrivere qualche cosa di spiritoso su un foglio di Pages o Word.

 

Però da quel 23 febbraio ho avuto modo di pensare che in fondo io sono un disoccupato di serie A, perché posso difendermi più di un cameriere che lavora in un ristorante, più di una maschera che lavora in un cinema, più di un istruttore di una palestra o piscina, più di un maestro di sci, più di un addetto ai piani di un albergo, più di una colf, più di qualsiasi altro disoccupato futuro che diventerà disoccupato per colpa di un minuscolo parassita. Per questo motivo mi sento doppiamente in colpa, verso i miei antenati e verso i disoccupati “incoronati”. Oltre che in colpa mi sento impaurito, mi sento, per dirla con Ungaretti, come una foglia su un albero in autunno. Spero che il vento faccia un’altra strada.

 

E se capitasse a me? Poco fa ho sentito in tv che in molti casi bisogna scegliere chi intubare perché le macchine respiratorie non sono sufficienti per tutti. Una dottoressa, con la voce imbarazzata dopo una pausa ha detto che quelli oltre i 60 anni non li intubano. Ho sentito la mia fogliolina ondeggiare sinistramente. Ma Dio mio! Possibile per un virus? Ma perché la medicina non è mai riuscita a inventare un antibiotico contro i virus, una Amuchina iniettabile? Perché non è possibile creare delle pastiglie di alcool denaturato? Un aerosol di candeggina? Un clistere di champagne!?!?

 

Ho passato tutta la vita terrorizzato dall’idea di un infarto, un ictus, ho guidato prudente per non fare un frontale in macchina, mi sono alimentato per decenni con broccolo e cavolo per prevenire il cancro, non sono mai andato a fare sci fuori pista per la paura di finire sotto una valanga, mangio della pasta che sa di cartone per tenere bassa la glicemia, e alla fine scopri che basta un’alitata del tizio che ti fa la benzina in autostrada e rischi di finire i tuoi giorni. Non per un frontale o perché mangi salsicce tutti i giorni, colazione, pranzo e cena, no, per un’alitata! Niente, il buon Dio ha deciso che siano i piccoli, i minuscoli a comandare; altro che cannoni, bombe all’idrogeno, droni con i missili: un nano malefico della biosfera riesce a metterci in ginocchio.

 

Dio mio, ma perché morire? Ma perché ci regali la vita e poi ce la togli? E’ incredibile, basta un raffreddore per farmi tirare fuori la domanda più scomoda e antica, quella di Adamo ed Eva, quella di Giobbe, quella degli esistenzialisti, degli atei, quella di tutti gli uomini, incazzati: perché morire? Dopo un paio di giorni di arrabbiatura solenne mi sono rassegnato: visto che sarò costretto a stare in casa tanto tempo, disoccupato, ho deciso di fare tre cose: mettere sul comodino una scatola di Tachipirina 1000 mg, Le Confessioni di Sant’Agostino e il telefono con l’ultima chiamata del 118.

 

Buona fortuna a voi e un pochino anche a me.

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