Il cielo già livido della sera dietro a quella fila di camion militari, fermi in attesa davanti all’architettura gigantesca e cupa, come senza conforto, del Cimitero monumentale di Bergamo. Poi la notte già scesa, illuminata solo dai fari dei camion militari che attraversano la città in silenzio. In colonna di guerra, non in corteo. Senza ali di folla, senza un saluto o un fiore, la città ricacciata indietro dalle regole e da uno sgomento troppo grande anche per affacciarsi alla finestra. Trenta camion dell’esercito che trasportano sessantacinque bare, una parte persino piccola delle sue vittime che Bergamo non può più nemmeno seppellire, non riesce nemmeno più a cremare. Sono le fotografie di mercoledì 18 marzo, non se n’erano ancora viste di così strazianti, e solenni, nella storia (breve) della nostra pandemia. Di così mute, anche. Le fotografie per natura non parlano, ma molte volte le più drammatiche sembra di sentirle urlare, di sentirne i rumori, i pianti. Da quelle fotografie di camion militari, l’esercito d’Italia, che sgomberano la città come tanti carri di monatti, sale il silenzio. Uno ha scritto su Twitter: “Bergamo mia questa notte non ho più parole, non ho più nemmeno un ‘andrà tutto bene’”. In provincia i morti sono più di 550, questi andranno a Modena, in Friuli e in Piemonte. A Varese, Piacenza, Parma, Rimini. Provvisoriamente. Verrà il giorno di fare ritorno. Immagini di guerra, come non pensarlo? Ma nel ricordo sfocato di telegiornali da terre lontane.
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