Confessioni di un runner
Il volto nudo della città. Il rumore vitale del tram. I vaffa dalla finestra. La disciplina più forte persino delle regole. Appunti, andando un po’ di corsa, sulla nuova normalità
Sono passati cinquantatré giorni da quando alla tivù ci hanno detto che non potevamo più correre. Eccomi qua, ora posso dirlo senza paura di essere linciato: io sono un runner, corro tre o quattro volte alla settimana, lo faccio perché mi fa sentire bene fisicamente e mentalmente, lo faccio anche perché sono molto vanitoso e voglio essere bello, senza la pancetta dei miei cinquantadue anni. Se su quest’ultimo punto c’è ancora molto lavoro da fare, sulla sanità fisica e mentale di chi fa sport ho pochi dubbi: la corsa è vita, l’essere umano è fatto per correre, lo abbiamo nel nostro codice genetico da molto tempo prima di inventare il motore a scoppio o di sellare un cavallo, la corsa secondo diversi studi aumenterebbe le famigerate difese immunitarie di cui tanto abbiamo sentito, sentiamo e sentiremo parlare in questo periodo di emergenza.
Per un paio di questi cinquantatré giorni c’è stata confusione riguardo alla “attività fisica” tra governo, regione e comune: “Si può correre!”. Sindaco: “No, non si può, punto e basta!”. Governatore con mascherina sbilenca: “Sì, potete correre ma solo nei pressi di casa vostra”. Governo centrale: “Definiamo pressi: duecento metri”. Bene, almeno una indicazione precisa!
Io i duecento metri li faccio in 30”, come si fa? Per prima cosa il 9 marzo mi attacco al telefono e chiedo se si trova un tapis roulant: tutti molto gentili, ma niente da fare, la prima consegna possibile è a metà aprile. Al di là del prezzo e della consegna tardiva ne faccio una questione filosofica e medica: è più salubre correre chiuso in casa o all’aria aperta? L’egoista risponde prontamente che è più salubre l’aria primaverile di una Milano d’improvviso ripulita dallo smog, l’altruista cerca una terza via per non veicolare virus, per non creare assembramenti, per non richiedere un diritto così futile come la corsa in giorni in cui la gente muore soffocata in una corsia di ospedale.
Facciamo così, vado a correre fuori, starò a 200 (facciamo 250, dài) metri da casa, ma farò in modo di andarci quando sarò solo, solissimo. E allora in questi cinquantatré giorni la sveglia un giorno sì e l’altro no suonava alle 5.40. Era ancora notte, era buio alle 5.40, io uscivo di casa alle 6 e per le 7 ero già sotto la doccia. Per una serie di circostanze, le mie uniche uscite di questi cinquantatré giorni sono state quelle legate alla corsa. Distanziamento sociale massimo, incontri col prossimo zero. Conosco a memoria tutte le auto in sosta della zona, abbandonate anche in malo modo e mai più spostate fino alla fase due: lunedì 4 maggio.
Mi hanno fermato praticamente una volta alla settimana, bendato e con cappellino come un black block ma il mio piano era infallibile: dire la verità, che ha sempre una sua forza straordinaria.
“Abito qui”.
“Qui dove?”.
E lì, magicamente puntavo il dito in direzione di casa mia, che si vedeva. Se non si vedeva era perché mi trovavo dall’altro lato del quadrato, ma sempre a duecento metri (facciamo duecentocinquanta, dài) da casa.
“Tutto ok, vada”.
In questi cinquantatré giorni ho imparato a conoscere come sono cambiati i consumi dei milanesi, perché uscivo all’ora dei camion dell’immondizia. Quando tutti i condomini preparano il cartone, il vetro, il sacco giallo o l’umido sul marciapiede.
Signor Jeff Bezos di Amazon, lei con i milanesi ci si può comprare una bella casetta ai lidi ferraresi! Secondo me anche di più, signor Bezos, a giudicare dai cartoni Amazon sul marciapiede dei duecento (facciamo duecentocinquanta, dài) metri davanti a casa mia. Poi tanto delivery, con i suoi bei cartoni e sacchetti di ristorante e tante, tantissime bottiglie in vetro: sono gli alcoolici che non abbiamo consumato al bar e al ristorante. D’altronde com’era quella faccenda della Milano da bere?
Ho incontrato anche un leone da balcone, ricordate? Quelli che gridavano “Stai a casa, coglione!”, dai balconi i primi giorni drammatici, quelli delle bare di Bergamo che angosciavano le nostre serate. Mi sono chiesto, con un senso di colpa galoppante che ho imparato a riconoscere a occhio nudo, se fosse il caso di andare a correre in quei giorni. Mi sono risposto che, alle 6 di mattina, da solo e distanziato dal resto dell’umanità, il senso lo aveva ed era proprio anestetizzarsi, cercare di non pensare alle bare, ai morti, al virus, di reagire. Mi sono risposto che stare a casa a piangere i morti non avrebbe aiutato a far calare il conto delle vittime.
Ma eravamo al leone da balcone.
Il leone era in bicicletta alle 6.30 di mattina. Gridava nel silenzio di Milano: “Stai a casa coglione”. Giuro, non ho mai fatto a botte in vita mia, la violenza mi ripugna. Risposta a tono, breve corsa dietro al ciclista che per mia immensa fortuna scappa via. Potevo rimanere offeso, come dicevano gli svizzeri Aldo Giovanni e Giacomo con la Gialappa’s qualche lustro fa. Ma come ci siamo ridotti? Ci azzanniamo come animali in gabbia con delazioni infantili, lo sportivo che critica il fumatore che abbassa la mascherina, le signore che litigano di fronte al supermercato perché la distanza non è di tre metri ma di due metri e venti, il leone da balcone che grida insulti (riprendendosi col cellulare) all’uomo che passeggia per qualche like in più. Mi chiedo per tutto il resto di quella giornata cosa stiamo diventando.
Le settimane passano, i numeri migliorano impercettibilmente, lentamente, con l’altalena che tutti conoscete. Il plateau. Quanto dura ’sto plateau? La tensione si allenta. Nel correre non mi sento più un ladro, un delinquente, un fuorilegge, un untore. Mi sento sempre più vivo, ma mantengo la sveglia alle 5.40. La corsa genera invidia sociale, lo capisco: “Perché lui può uscire e io no?”. Quindi continuo all’alba, con alcuni vicini black block che riconosco e saluto dal travestimento. Quando le mascherine non saranno più obbligatorie mica li riconoscerò, per me sono quelli li, i mascherati.
Conosco a memoria le vie vicino casa, seguo giorno dopo giorno le fioriture degli alberi, so che sabato e domenica Milano, anche in quarantena, si svuota dei pendolari che comunque un po’ la affollano durante la settimana, allora nel weekend mi concedo il lusso di una sveglia tardiva, tipo le 6.30 con uscita alle 7 di casa e rientro alle 8. Deserto.
Il premier ci chiede altra pazienza. “Non ce lo possiamo permettere”, riecheggia la sua voce nelle nostre orecchie, ma dal 4 maggio forse si potrà correre lontano da casa. Con la mascherina, sempre. Anzi no, dice il governatore, anzi solo per chi corre si può togliere. Ma io la porto e la indosso, anche dal 4 maggio. Sono abituato a due mesi con lo “scaldacollo” in faccia fino a sotto gli occhi. La mascherina in confronto è una piuma, una carezza fresca!
Mi rendo conto che il lettore non sportivo potrà, a questo punto dell’articolo, essere sbigottito. Per farvi capire cosa prova un runner senza la corsa l’unico paragone che ho è quello con un fumatore. Chiudete i tabaccai, vietate le sigarette, vediamo che succede. C’è una differenza: che la corsa fa bene, il fumo meno. Attenzione: qua non siamo al duello salutisti contro fumatori, sedentari contro sportivi. La vita è godere di tutto, corsa, fumo, ballo, alcool, libri, sport da vedere, sport da fare, amore, fritto, musica, peperonate. Tutto.
Siamo nella settimana che precede il 4 maggio, l’attesa cresce ma è importante rispettare le regole: lo faccio. Noto che i controlli sono diventati meno asfissianti ma ci sono, le giravolte di un elicottero sopra la mia testa sono meno frequenti ma ci sono, specie nei festivi e nei prefestivi. “Milanese, dove credi di andare, al mare? Va che ti vedo eh”. Sembra Blade Runner, sarò scemo ma non mi ci abituo. Mi pare che i miei genitori e i miei nonni abbiano lottato per altro. Certo, questa è una pandemia, non un’invasione di esercito nemico, insomma siamo tutti dalla stessa parte, no? Però non è “normale” dover compilare un permesso per uscire di casa, non è “normale” che un elicottero volteggi sulla mia testa per controllare me, noi, tutti. Non abituiamoci! Il permesso, il posto di blocco, l’elicottero io lo tollero, non chiedetemi di amarlo. La notte prima del 4 maggio, il cinquantatreesimo giorno, non riesco a dormire, mi sveglio alle 3, poi alle 4, poi finalmente alle sei per uscire a correre finalmente oltre ai duecento metri (facciamo due e cinquanta?) da casa. E’ incredibile: sono emozionato! Valico i fatidici duecento metri, rivedo i lastroni del pavé (noi a Milano abbiamo dei sampietrini grossi e li chiamiamo così, pavé) pieni d’erba tra uno spazio e l’altro, nelle fughe. Non passa nessuno qua da due mesi, la natura si riprende tutto anche in cinquantatré giorni. E’ tardino, sono le 6.50 di mattina, entro al parco Sempione e mi prende un nodo in gola: piango. Eccoti qua, Milano mia! In questi 20 giorni dell’anno sei lasciva e seducente quasi come Roma, sei bella in modo assurdo come Zoolander, anche senza la moda, anche senza gli aperitivi, anche demilanizzata. E’ maggio e sei bella.
Ora esco dal parco perché voglio andare in centro ma il Castello sforzesco è chiuso, quindi tocca fare il giro, via Dante sembra un centro commerciale chiuso, la faccio tutta a cinque al kilometro (questa bisogna essere un runner per capirla, per fare un kilometro ci metto cinque minuti, passo rispettabile per un cinquantenne, dài). All’improvviso arrivi tu, Madunina mia. Quanto ti voglio bene! Come mi sei mancata! Ho i brividi a vederti! Il Duomo è li che mi guarda austero come sempre, in piazza ci sono più troupe televisive, polizia, carabinieri e militari che passanti. Qualche runner come me, ma son sempre le 7 di mattina, saremo in dieci.
Faccio corso Vittorio Emanuele, piazza San Babila, il quadrilatero della moda, Montenapo, Sant’Andrea e Della Spiga, poi mi butto in via Manzoni che Alessandro di pandemie se ne intendeva assai. La Scala di Milano è sulla mia destra, Palazzo Marino sulla sinistra. Godo moltissimo. Mi devo sentire in colpa? Pedro, adelante con juicio! Scriveva il Lisander Manzoni, quello della via che ho appena percorso già abbastanza trafficata per essere le 7.15 di mattina. Hanno riaperto i cantieri, quindi ci sono i camion dei muratori di Bergamo (che “mola mia”, non mollano, ovviamente) pronti a ricominciare alle 8 con i loro colpi di mazzetta. Riconosco il fumo dei loro diesel euro zerissimo e oggi mi piace un sacco anche quello.
Ora mi verrebbe da mettere le pattine, perché sto entrando nel salotto di Milano. La galleria Vittorio Emanuele è lucida, bella e deserta. Due vigili urbani mi vedono e si girano all’altra parte. Si può, non mi sembra vero! Non mi faccio mancare nulla, nemmeno i tre giri sulle palle del toro in Galleria che porta bene e Dio solo sa quanto la Wuhan d’Italia ne abbia bisogno in questo momento. Ritorno indietro e in piazza Cordusio vedo i veri eroi silenziosi di questa città, dopo gli operatori sanitari e i rider del cibo: i tranvieri. Il tram c’è sempre stato anche nelle serate più buie, quelle da duemila morti al giorno, anche quando il Papa era in una San Pietro deserta a pregare il buon Dio che tutto questo finisse. Il tram è stato baluardo di questa città. Finché c’è un tram che sferraglia per le vie della città, Milano non ammaina bandiera, Milano resiste. Sembra una sciocchezza ma in questi due mesi sono stato aggrappato al rumore del tram, allo sguardo del tranviere che davvero sembrava dirmi la fatidica: “Andrà tutto bene”.
Torno a casa con la consapevolezza che la luce in fondo al tunnel è ancora lontana, che bisogna andare “Adelante, con juicio”, sappiamo bene che l’estate è un’incognita, che il futuro dipende da noi. Dobbiamo stare attenti, a distanza, evitare assembramenti, lavarci le mani, indossare la mascherina. Ho, abbiamo, tutto chiarissimo.
Anche che questa giornata, la cinquantaquattresima, comunque vada non la dimenticheremo a lungo.
Nicola Savino è un conduttore radiofonico e televisivo. E’ autore televisivo e attore. Questo è il suo primo articolo per il Foglio
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