Come cambia la nuova Milano delle biciclette
Dal secondo dopoguerra a oggi sono state le crisi economiche, a dare nuova linfa alla bici. Un giro da Rossignoli per capire cosa sta accadendo nel capoluogo lombardo
"La bicicletta è il mezzo dei periodi più difficili. Quando si è più poveri. Quando ci si ritrova a dover ricostruire". Anche questo tempo, pur senza alcuna parentela con la guerra, ha le sue macerie, ed è su queste macerie che sta rinascendo la voglia di bici. Ne parliamo con Matia, quinta generazione della famiglia d'artigiani Rossignoli, cresciuto a pane, Milano e pedali. Ci sediamo nel cortile dello storico negozio aperto dal nonno Sergio nel 1945, in Corso Garibaldi 71, per una breve escursione tra passato, presente, e qualche timida scommessa sul futuro, del pedalare meneghino.
"È dopo la prima guerra mondiale che esplode l'uso della bicicletta. Le strade vengono asfaltate per ospitare le automobili, ma non essendoci più solo pavé e sterratino, anche le bici se la godono. Ed entrano nell'immaginario collettivo, dopo aver ispirato i Futuristi nei primi anni del secolo". Il bisnonno Ettore, figlio del pioniere Giorgio, apre e chiude minuscole piccole botteghe nel sud Milano, dove ripara le primissime camere d'aria e i freni a bacchetta, salda l'acciaio dei telai, e comincia a far produrre e marchiare col suo adesivo le prime biciclette Rossignoli. "Sono bici di 25 chili, servono a portare cose, hanno un pianale gigante davanti e uno dietro, sono le prime cargo. Comprendono la fatica, Ghe voren i garun, come disse il Binda. La bicicletta è un mezzo. Il fine è il lavoro".
Sarà per questo suo DNA che quando voglio pedalare mi invento un qualcosa da fare, un motivo pratico per andare.
Chissà cosa avrebbe detto l'Ettore vedendo i grupponi in tute attillate e bici supersoniche fare chilometri domenicali avanti e indietro senza un perché.
"Intanto gli avrei spiegato che quelle bici muovono un casino di soldi. E questo lo avrebbe capito bene. Poi che spesso quei raduni a pedali sono l'unica occasione per stare tra amici. E senza alcune differenze sociali. Ci sono lo psicoterapeuta, il camionista, il manager di Prada. Un godersi la dopamina senza agonismo. Certo, poi ci sono i performativi, quelli del chi ce l'ha più leggera, quelli che sono stati sulle Dolomiti e sanno solo dirti quanto ci hanno messo".
Infilare le strade della meraviglia pensando al cronometro. Eppure il gesto rotondo del pedalare si presta alla contemplazione. Anche a Milano. Voi affittate le bici ai turisti.
"Sì, quando c'erano! E non immaginare solo olandesi, o tedeschi: sono molti meridionali a prendersi una bici per girare la città. E sono quelli che ti danno più soddisfazione. Tornano felici, ti ringraziano con i loro accenti sinceri, ti elencano quello che gli è piaciuto di più".
Arrivassi per la prima volta a Milano mi butterei a pedalare vicino all'acqua dei Navigli. Ed è in quella zona, che alla fine degli anni Trenta il nonno di Matia, Sergio, apre quelli che cominciano a chiamarsi negozi: Via Santa Croce, Via Molino delle Armi, Corso San Gottardo. Ma c'è subito la seconda guerra, e vengono distrutti dai bombardamenti degli 'amici'.
La passione però resta in sella. "Insieme alla cultura della bicicletta e alle mani buone. Con questo bagaglio il nonno apre il primo negozio qui avanti, in via Garibaldi al 16, nel 1946, per poi infilarsi definitivamente dove siamo adesso. Il simbolo di quell'epoca è il Giro d'Italia del '46, che vince Bartali: attraversa un'Italia meravigliosa e distrutta, e in qualche modo la ricuce. È quello della rinascita. Ci sono le foto, stupende".
Nessun paragone con il nostro dorato lockdown. Ma una Milano così deserta non si era mai vista. "Durante l'isolamento mi sono attivato con il commercio online, facendo piccole consegne, per tenermi vivo, più che altro, e con un'autocertificazione ho attraversato una città post apocalittica. Dal fascino mostruoso e ambiguo. Altro che ferragosto!".
In queste settimane il negozio alza la serranda alle 14.30, e nel primo cortile è un via vai di scatoloni, le ordinazioni superano le disponibilità, Matia viene chiamato per risolvere una questione. Approfitto per guardarmi intorno, nel cortile interno, circondato dall'ombra delle piante e dalle biciclette impettite sulla rastrelliera. Mi avvicino alla targa verticale appesa a un ingresso laterale del magazzino, un elenco di modi di dire in dialetto milanese. Mi fermo a Daghela al bürel, portala in discarica, la frase che un amico ciclista mi ha dedicato appena vista la mia antica e scrausa city bike. Che non fa gola a nessuno. E qui entra in gioco l'incubo dei ladri di biciclette. Matia torna a sedersi e scuote la testa. "Ti entra in negozio un tipo con le scarpe di Gucci, guarda una gran bici, poi dice: Ma tanto me la rubano! Io non voglio che passi questo messaggio. Con tutti i negozi di biciclette abbiamo fondato Assobici, per parlare con un'unica voce, e al primo punto c'è questo problema. Serve sensibilizzare. Scriviamola, questa cosa. Devi far entrare in testa che la bici usata spesso è una bici rubata".
Il paradosso circolare: ne compri una rubata, perché la tua te l'hanno rubata. "Non deve passare impunito, come furto. Lo so che ci sono cose più grandi e sacrosante per le forze dell'ordine, ma puoi cominciare a identificare un acquisto con numero di telaio, segni particolari, deve esserci la possibilità di sporgere denuncia, sapendo che non verrà derisa. Devi sentire una forma di protezione anche per il tuo 'bene', oltre alla sicurezza in strada. E poi ci devi mettere del tuo: non uno, ma due lucchetti, seri, sono una spesa che ripaga".
Dal secondo dopoguerra a oggi sono state le crisi economiche, a dare nuova linfa alla bicicletta. Col boom economico degli anni Sessanta le bici vengono "stuprate" dalle automobili; è un mezzo da poveri, e la povertà vuole essere lasciata alle spalle. Poi arriva la crisi petrolifera del '73, e ricorda a tutti che la bici non ha serbatoio. Gli anni Ottanta della Milano da bere rimettono la bicicletta nel posto de' vergognosi, direbbe il Manzoni, mezzo da sfigati l'apostrofava più prosaicamente lo yuppie. Quindi si finisce nella crisi del 2008, dopo la quale c'è la nuova ondata hipster e green, più snob che povera, ma intanto la bicicletta si afferma, insieme al riciclo. Il fiorire delle ciclofficine lo certifica.
E arriviamo a noi. Una rinascita del pedalare è in corso. Siamo più poveri, sicuro, ma anche il bonus ha fatto il suo sporco lavoro. "Io però metto in guardia quelli che acquistano incoraggiati dal bonus: il rischio che i soldi non basteranno per tutti è quasi sicuro. Ed essendo necessario lo SPID, per accedere alla piattaforma, e la procedure per ottenerlo non è immediata, i più agili tecnologicamente saranno avvantaggiati." SPID suona come veloce in inglese.
Potrebbe anche succedere che il governi decida di mettere altri soldi, sui pedali. In fondo, è incoraggiante la rapidità con cui a Milano si sia ristretta Corso Buenos Aires. "Hanno tolto spazio alle auto. Un gesto potente. Visto dall'alto quella strada era una flusso di quattro, anche sei file di auto, con altre due in sosta ai lati". Un grande incastro di lamiere e gas di scarico. La civiltà dell'auto appare consumata, decadente, eppure insiste, come certi vecchiardi al potere. "Mio figlio di otto anni, l'altra sera, davanti a una sequenza di pubblicità di automobili mi guarda e chiede: Papà, perché fanno vedere tutte quelle macchine nel deserto, o che scivolano sulle montagne, quando poi sono tutte ferme al semaforo?". Basta la domanda. "Il cambio di passo lo danno i ragazzi. Quando entra in negozio un padre con il figlio di 15 anni, che al posto del classico motorino gli ha chiesto una bella bici, capisci che la svolta è possibile".
Matia mi presenta lo zio Renato, con il quale ci diamo la mano, d'istinto, e vabbè, non si doveva. La madre Giovanna è indaffarata nel magazzino, me ne indica la figura dietro la finestra. "Se siamo ancora qui, e ancora noi, devo ringraziare i tre che hanno tenuto acceso il lumicino anche nei periodi di grande magra." Il terzo è l'altro zio Giorgio, come il capostipite. "Parliamoci chiaro, alla bicicletta ghe tacà sù nient". Non c'è troppo da inventarsi, per fare cassa. "Questo è un luogo dove resistono le mura sgarrupate, le bici appese come salami, dove cambi il filo del freno e sistemi il cestino, ma di fianco ti si rimette a nuovo la Pinarello super da 4mila euro. Questo è il mio orgoglio. Io ho anche bisogno di guardare sempre avanti, i telai in carbonio, la verniciatura top, che cambia colore a seconda della luce...".
Ogni generazione porta il suo tempo, questa la forza delle aziende familiari. Rossignoli prosegue la sua storia, dove molte altre hanno chiuso, o disarmato. "Qui poi entrano tutti, dal matto di quartiere, che se ne sta a far chiacchiera, alla sciùra milanese col grano. È un luogo d'incontro".
Il gesto lento dell'artigiano si presta, accoglie la conversazione.
Entra in cortile una bella ragazza, vestita di cotone leggero, e va a sfilare la sua bici dalla rasterelliera.
"Ricordiamoci anche che la bicicletta ha tolto le donne dalla prigione del corsetto. Le ha messe in gonna. Persino in pantalone. Ha fatto la sua parte nella rivoluzione del costume". Succede alla fine dell'Ottocento, in molta Europa. Da noi ci vorrà ancora un po', la morsa bigotta vedeva nella bicicletta la portatrice di brutti mali. Facile intuire quali, al limite del satanico. A proposito mi viene suggerita la storia di una donna straordinaria, Annie Londonderry, che nel 1894 fa il giro del mondo in bicicletta. Con un paio di mutande e una pistola. Aveva 24 anni. Una storia che scopro raccontata da Roberta Balestrucci nel libro Annie. Il vento in tasca. Sinnos editrice.
È ora di aprire il negozio, e Matia non può mancare. "Abbiamo questa pia illusione di contribuire a migliorare il mondo" è la sua ultima riflessione. "Noi mettiamo la gente in bicicletta".
Ci scambiamo il gomito, e mi accompagna all'uscita.
Sotto la scritta rossa del negozio inizia una lunga fila, che scandisce il marciapiede come quella di un supermercato in pieno lockdown.