La falsa narrazione sulla lotta alla mafia che ha distrutto questo paese
Fu il Pci a votare contro il decreto che riportava in carcere i mafiosi del maxiprocesso. E’ tempo di ristabilire la verità
Ventotto anni fa tra maggio e luglio iniziò la campagna stragista dei corleonesi prima con l’assassinio di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo con la loro scorta e poi con quello di Paolo Borsellino e la sua scorta. Un tempo più lungo della durata del fascismo e quindi sufficiente a ricordare le tappe salienti di quegli anni Ottanta che videro una lotta senza quartiere alla mafia da parte di tutti i governi e in parte anche dell’opposizione. E invece da qualche tempo c’è in giro una falsa narrazione degli accadimenti, addirittura tacendo o omettendo i fatti per come storicamente sono accaduti, da parte di ambienti che notoriamente contrastarono Giovanni Falcone e la sua azione. Ma tralasciamo le opinioni e andiamo ai fatti, pregando e sollecitando i falsi narratori di correggerci se incorriamo in errore. Partiamo dal 1984 quando si avviò di fatto la storia del maxiprocesso intentato da Giovanni Falcone e da quel pool antimafia costituito da Antonino Caponnetto, capo dell’ufficio Istruzione di Palermo con l’arresto di 380 mafiosi. Un grande successo della lotta antimafia tanto che lo stesso Caponnetto sentì il bisogno di dichiarare a tutta la stampa italiana che quella iniziativa “è stata possibile grazie all’ossigeno che ci è venuto dal ministro dell’Interno Scalfaro e da quello della Giustizia Martinazzoli”. In realtà, già due anni prima con il ministro Rognoni all’Interno e Clelio Darida alla Giustizia furono introdotti il reato di associazione mafiosa (il 416 bis), l’alto commissario antimafia e la legge Rognoni-La Torre che innovò le indagini sui clan mafiosi e le loro ricchezze.
L’allarme di Falcone
Ma torniamo al maxiprocesso facendo un salto di alcuni anni, senza però dimenticare che nel 1984 Sergio Mattarella divenne commissario provinciale della Dc di Palermo e un anno dopo Lillo Mannino divenne segretario regionale a testimonianza che la Dc schiero due degli uomini più autorevoli per garantire che la lotta alla mafia diventasse una lotta senza quartiere. Mannino è stato processato, incarcerato e poi assolto 19 volte e il secondo è diventato il presidente della Repubblica amato da tutti gli italiani. Andiamo avanti. Ai primi di settembre del 1989 il maxiprocesso era alle battute finali ma c’era un grande rischio e cioè che per la decorrenza dei termini uscissero dal carcere diventando uccel di bosco quasi tutti i boss mafiosi. Falcone avvertì Giuliano Vassalli, ministro socialista di Grazia e giustizia, che riferì subito a Giulio Andreotti presidente del Consiglio che. Quest’ultimo, sentiti subito Mattarella e Mannino entrambi ministri in carica, convocò in un tardo pomeriggio il Consiglio dei ministri che approvo un decreto legge con il quale si raddoppiava la durata del carcere preventivo per gli imputati di associazione mafiosa. Un decreto che di fatto era un mandato di cattura, come dissero alcuni critici, tanto che la sera stessa i carabinieri arrestarono quanti erano da alcune ore già usciti dal carcere. Ebbene, quel decreto legge che pensavamo andasse veloce all’approvazione in parlamento trovò la forte resistenza di Luciano Violante, e quindi dell’intero Partito comunista dell’epoca, con una dura reprimenda al governo in cui si sosteneva che c’erano norme che consentivano il controllo di scarcerati pericolosi e quindi non si doveva raddoppiare la custodia cautelare per gli imputati di associazione mafiosa ma lasciarli liberi benché controllati. La Dc e l’intero pentapartito tenne ferma la posizione e il maxiprocesso continuò, concludendosi anni dopo con condanne durissime a tutto il gotha mafioso. Quell’atteggiamento comunista si sposava con alcuni suoi comportamenti, prima e dopo quella data, nei riguardi di Giovanni Falcone. Nel gennaio del 1988, all’interno del Csm la sinistra giudiziaria e politica – fatta eccezione di Caselli – votò contro la nomina di Falcone a capo di quell’ufficio Istruzione retto sino ad allora da Antonino Caponnetto, costruttore del primo pool antimafia, preferendogli Antonino Mele privo di qualunque esperienza di lotta alla mafia. Paolo Borsellino, commemorando Falcone, definì Giuda alcuni che in quel Csm avevano tradito Falcone. L’avversione a Falcone fu in quegli anni una caratteristica della sinistra politica e giudiziaria che portò lo stesso Falcone prima a doversi presentare alla commissione disciplinare del Csm e poi a dover superare il contrasto comunista sia all’istituzione della Direzione nazionale antimafia e poi alla sua nomina alla guida della nuova istituzione. Agli inizi del 1991, Falcone prese la decisione su sollecitazione di Francesco Cossiga di venire a collaborare con il governo Andreotti diventando direttore generale degli affari penali con l’assenso di Claudio Martelli, ministro della Giustizia. Nei diciotto mesi successivi furono approvate, tra le altre, la legge sui collaboratori di giustizia, sulle norme anti riciclaggio e il contrasto alle infiltrazioni mafiose nei consigli comunali con il loro scioglimento con decreto del ministro dell’Interno. L’ispiratore fu sempre Falcone e l’intero governo agevolava ogni iniziativa.
Chi si oppose al 41 bis
Quando Falcone saltò in aria a Capaci, il governo Andreotti, Scotti all’Interno e Martelli alla Giustizia, approvò un decreto legge con il quale estendeva il carcere duro (il famoso 41 bis) anche ai mafiosi, ai camorristi e agli ndranghetisti. E ancora una volta il Pci si oppose facendo prima una pregiudiziale di costituzionalità che se fosse stata accolta avrebbe fatto decadere il decreto e poi, un a volta superato questo scoglio, si astenne sull’approvazione. Nei mesi precedenti, con Falcone ancora in vita, la sinistra politica non perdeva occasione di attaccarlo. Memorabile fu l’attacco di Leoluca Orlando Cascio che accusò in diretta televisiva Falcone di tenere nel cassetto carte compromettenti contro Lima per insinuare che con la sua presenza alla direzione nazionale antimafia si sarebbe venduta l’anima. Ricordo che per Lima non è mai stato richiesto un rinvio a giudizio neanche dalla procura di Palermo. Certo se non ricordassimo il sacrificio di Pio La Torre, di Peppino Impastato e di pochi altri comunisti ammazzati dalla mafia, verrebbe da dire che dal 1988 al 1992 i comportamenti del Pci guidati da Violante potrebbero far pensare alla volontà, essendo all'epoca tra l'altro la crisi del comunismo internazionale alle porte, di costruire una trattativa con alcuni ambienti della criminalità mafiosa. Ma questa è una nostra suggestione interpretativa e come tale va considerata non tenendola neanche in conto, ma i fatti restano questi: il Pci votò contro il decreto che riportava in carcere i mafiosi del maxi processo, tentò di far cadere il carcere duro del 41 bis, ostacolò la nascita della Dna e fu permanentemente contro Giovanni Falcone oggi ipocritamente elogiato in ogni commemorazione.
Ma c’e ancora qualcosa da ricordare. Dopo la morte di Falcone i carabinieri del Ros Mori e De Donno, oggi accusati e condannati in primo grado per la trattativa stato-mafia, tentarono di far pentire Ciancimino, uno dei capi della mafia che si infiltrò nella Dc da cui fu cacciato nel 1983, molto prima che arrivasse la magistratura. Bene, la famosa trattativa che Mori e De Donno avrebbero fatto fu che convinsero Ciancimino a parlare alla commissione antimafia utilizzando le norme della legge sui collaboratori di giustizia. Nell’ottobre del 1992 fu annunciata da Violante questa convocazione alla commissione antimafia. Qualche giorno prima della audizione, Ciancimino fu arrestato guarda caso dalla procura di Palermo e consegnato alla polizia di stato e Violante, sempre guarda caso, cancellò quella audizione che poteva tranquillamente fare come già la commissione aveva fatto nel 1989 con il detenuto Totuccio Contorno che Gianni de Gennaro tentava di convincere a pentirsi. In questi mesi abbiamo visto una narrazione in televisione e su alcuni giornali che non ha mai riportato questi fatti mentre la liturgia commemorativa di Falcone e Borsellino li nasconde offendendo la loro memoria, come nasconde l’atto di accusa di Borsellino e della Boccassini contro quell’area della magistratura che aveva sempre contrastato in vita Falcone. Quell’area della magistratura rappresentava una parte dello stato così come lo rappresentavano anche Ciampi e Conso, che liberarono dal 41 bis 300 mafiosi nel novembre del 1993 e il cui governo era appoggiato dal Pci. Le bombe che nei mesi precedenti avevano colpito Milano Firenze e Roma improvvisamente cessarono mentre iniziavano i grandi flussi di scarcerazione di mafiosi, camorristi e ndranghetisti, compresi alcuni assassini rei confessi di Falcone dopo pochissimi anni di carcere senza che i mafiologi ne abbiano mai parlato (fino al 2005 erano diecimila).
La falsa narrazione è andata oltre la Dc, ritenendo quella eliminazione dei 300 mafiosi dal 41 bis fu una trattativa fatta da Berlusconi e Dell’Utri ancora non entrati in politica! Ma solo per completare i fatti ricordiamo che da sempre una parte del Pci ha accusato la Dc di collusione o compiacenza con la mafia perché puntualmente perdevano le elezioni, salvo poi che a distanza di anni gli stessi fatti smentivano le ricostruzioni e le accuse fantasiose. Un solo esempio: il noto Michele Pantaleone, deputato all’assemblea siciliana del Fronte popolare, sin dopo la guerra accusò Bernardo Mattarella, padre di Sergio e uno dei fondatori della Dc siciliana insieme ad Alessi, Alderisio e Scelba, di colludere con ambienti mafiosi, salvo poi a venir fuori la documentazione che lo stesso Pantaleone dopo lo sbarco degli americani fu per diverso tempo il delegato del sindaco di Villalba, tale don Calogero Vizzini, noto autorevole capomafia. Pantaleone, dopo una denuncia di Bernardo Mattarella, ritirò ogni accusa scusandosi. E se è giusto ricordare il sacrificio di Pio La Torre e di Peppino impastato, vanno ricordato i tanti morti della Dc, a cominciare dal vicesegretario regionale Vincenzo Campo durante le elezioni del 1948; nel marzo 1979, Michele Reina segretario provinciale della Dc di Palermo; nel gennaio del 1980 Piersanti Mattarella, il sindaco di Palermo Insalaco, gli attentati ai sindaci democristiani Elda Pucci e l’avvocato Martellucci, e non essendo siciliani, non ricordiamo che i morti eccellenti. In ultimo, non possiamo non ricordare che la Cassazione confermando l’assoluzione di Giulio Andreotti per tutti gli anni Ottanta concluse sugli anni precedenti dicendo così: “La ricostruzione dei singoli episodi e la valutazione delle relative conseguenze è stata effettuata sulla base di apprezzamenti e interpretazioni che possono anche non essere condivise e a cui sono contrapponibili altre dotate di uguale forza logica, ma che non sono mai manifestamente irrazionali e che quindi possono essere contestati nel merito ma non in sede di legittimità”. Chi conosce l’italiano, la sintassi e l’analisi logica capirà.
Giudicare i fatti per quel che sono
E’ tempo dunque che i grandi opinionisti e gli storici dicano con forza i fatti per quel che sono, perché a nostro giudizio fino a quando gli stessi fatti vengono nascosti o falsati, la lotta alla mafia non è vinta. E la festa della Repubblica di ieri e le tensioni sociali che sono all’orizzonte devono far ricordare che quella libertà riconquistata il 25 aprile del 1945 fu difesa da altri autoritarismi definitivamente il 18 aprile del 1948 con la vittoria della democrazia cristiana. Offenderla come fanno alcuni vinti della storia significa offendere la storia repubblicana e i suoi uomini migliori. Lo testimonia il fatto che dopo 25 anni dalla scomparsa della Dc, l’Italia era nelle condizioni in cui si trovava prima della pandemia. Oggi più che mai il paese avverte che la sua àncora resta Sergio Mattarella, democristiano e leader indiscusso della Dc siciliana la cui famiglia pagò con il sangue l’impegno politico dall’immediato dopoguerra in poi e la lotta permanente contro la mafia. Il resto è solo falsa narrazione che deve indignare innanzitutto la sinistra che oggi è al governo del paese con una parte della Democrazia cristiana.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio