La lettera di Enzo a Lucia sul Corriere che fa vedere com'è cambiato il fare pubblicità
Ci vediamo in tribunale. Si chiude così la lettera di Enzo, marito tradito, alla moglie Lucia, che ha pubblicato ieri Il Corriere della Sera. In passato ci sono stati: Martina Colombari che faceva gli auguri al compagno Costacurta, l’imprenditore Flavio Caravati che scriveva al presidente della Repubblica di essere vessato dal fisco, e persino Della Valle che si schierava politicamente — e non facevano meno impressione. Un marito geloso che scrive pubblicamente alla moglie pareva un formato plausibile per perdere la dignità. Abbiamo letto la lettera, piena di luoghi comuni ben calibrati (niente è più difficile di ricreare la sciatteria), e lì ci siamo divisi: da una parte la fila di quelli che hanno capito che era native advertising ("non sapevo che ti piacevano i ricchi", su), dall’altra quelli che ci hanno creduto, a Enzo. (Sono le stesse persone che credono che tutti i programmi tv siano in diretta, che mangiare una Vigorsol sia come lavarsi i denti, che il sale dietro alla porta scacci il malocchio, che si possa dimagrire dopo i quarant'anni: credono a tutto.) Qualcuno ci ha creduto, e sì: può votare.
Nulla ci interessa di meno, qui, di analizzare il tipo di messaggio pubblicitario o la sospensione di incredulità degli italiani. Si affretteranno le menti più acute di questo paese a criticarne il sessismo implicito perché a tradire è "sempre lei", senza lasciarsi sfiorare dal pensiero che trattasi di stereotipi narrativi, e che la vicenda può essere letta come “marito cornuto” o “donna traditrice”, a seconda della persona per cui parteggiate. E infatti oggi Lucia risponde che sì, lo ha tradito, perché insoddisfatta e poco amata, e fuori forma e annoiata. Il buzz sui social ha funzionato, perché crediamo di essere più bravi a scrivere pubblicità, perché ci abbiamo creduto, perché a noi mai nella vita, perché è bello spiare le vite degli altri. Obiettivo raggiunto per Real Time che parte con Alta Infedeltà condotto da Enzo Miccio. Nell’attesa del punto di vista dell’altro non possiamo che apprezzare il vero punto forte: niente banner o pubblicità tradizionali, ma una pagina Facebook.
Il banner è quella forma pubblicitaria basata sulla convinzione che infastidendoci noi corriamo a comprar prodotti. Sembra impossibile che esistano ancora e non siano stati gettati nel cestino. Tutti segretamente sanno che i CPM, i click per impression, non sono efficienti, ma continuiamo ad usarli perché c’è qualcuno disposto a pagare, ragionando ancora come quando la carta aveva il monopolio della distribuzione dei contenuti e i social network non erano ancora la prima fonte di traffico verso i giornali. Nick Denton, fondatore di Gawker dice: “Mi sono arreso ai banner. Non puoi combattere contro l’intera industria. E non puoi ignorare quello che i clienti vogliono”. Ma puoi persuaderli culturalmente, ed è ciò che faremo qui. Questo articolo è meta-native ad per il native ad.
Non facciamo finta che sappiate ciò di cui si parla. Il Native advertising è un formato pubblicitario basato sulla non interruzione dell’esperienza dell’utente. La pubblicità deve inserirsi in armonia con i contenuti e risultare interessante. La lettera di Enzo a Lucia non è propriamente native, ammesso che non consideriamo le lettere dei privati al Corriere come un tipico contenuto editoriale, la comunicazione Facebook lo è. Per avere un esempio di successo bisogna andare sul New York Times, e leggere il reportage sulla condizione della carceri femminili sponsorizzato da Netflix in occasione della seconda stagione di Orange is the new black. David Karp, CEO di Tumblr, sponsorizza i post con gif virali, e la sfida per lui è monetizzare la piattaforma blog che ha creato: quando è stato acquisito da Yahoo! ha fatto promettere a Marissa Mayer di non inserire pubblicità intrusiva. In Italia, particolarmente ben fatto è Ultimo Uomo, sito di calcio, dove Adidas sponsorizza longread di qualità, anche Gli Stati Generali ne hanno fatto un modello.
Le cose più intelligenti di questo secolo in merito ai modelli di business online per una media company le ha dette Jonah Peretti, fondatore di BuzzFeed, che dei contenuti sponsorizzati ha fatto un business da milioni di dollari. Peretti, in una intervista al Guardian di qualche tempo fa, disse: “Non credo che a Don Draper sarebbero piaciuti i banner”. La sede centrale di Buzzfeed è a soli due minuti da Madison Avenue, eppure è lontanissima dal mondo di Mad Man. Non ci sono annunci pubblicitari, display e pop-up molesti. BuzzFeed sperimenta editoriali sponsorizzati, senza distinzione tra informazione e comunicazione. È così che Coca-Cola, Nike e Toyota appaiono come partner commerciali che sponsorizzano canali e storie.
L’ambizione di Peretti è collegare il pubblico giusto al prodotto giusto, e per farlo utilizza software che tracciano il comportamento degli utenti per stilare profili precisi da rivendere agli inserzionisti (età, provenienza, interessi, livello d’attenzione etc.). Peretti ti dice a chi stai parlando, e lo fa con i grandi numeri. È il motivo per cui, mentre i giornali sono in declino, BuzzFeed fa ricavi (questo, e anche perché non è un giornale: è molto di più!). È il motivo per cui si definisce una tech company anziché media company, giacché usa gli analytics per conoscere il pubblico e rivenderlo agli inserzionisti in modo intelligente. Non senza esser criticato.
Tutti i limiti di questo modello pubblicitario sono contenute in un video di undici minuti dello show di John Oliver per HBO. Il problema per Oliver è che la separazione tra comunicazione e informazione è come quella tra Stato e Chiesa: serve alla democrazia. L’informazione deve essere libera e indipendente, e per esserlo non può accettare soldi da corporation, pena la censura di notizie politicamente rilevanti. Per John Oliver Jonah Peretti è il capitalista nemico della democrazia. Ora, difficile sostenere seriamente che oggi i giornali siano liberi e gli azionisti rimangano in silenzio, solo Pollyanna e Oliver possono idealizzare l’indipendenza delle testate. La vera differenza tra il Native Ad e ciò che si è fatto fin ora è la stessa che passa tra la marchetta e lo sforzo di scrivere qualcosa che interessi a qualcuno. (Ah, il programma di John Oliver è sponsorizzato su BuzzFeed).
Possiamo continuare, ed è giusto farlo, a porci considerazioni etiche giornalistiche immaginandoci meglio di quello che siamo. Google però ha già deciso. Da settembre Google news non distingue più tra informazione e comunicazione, e indicizza anche i comunicati stampa dei prodotti commerciali, ci ha avvisato ora. Vi sentite meno informati? Ci sarà sicuramente un Enzo che dirà “ci vediamo in tribunale”, e che si sentirà tradito dall’ennesimo colpo al giornalismo di qualità, ma il rischio, al solito, è di apparire come il solito cornuto.