Perché conviene a tutti lasciare le donne ammiccanti sui cartelloni pubblicitari
La differenza sta nella mercificazione del corpo, si dice. Lo ha detto anche il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ricordando che questo mese entra in vigore una delibera approvata dall’Assemblea capitolina nel luglio scorso che vieta l’affissione di messaggi pubblicitari contenenti “stereotipi e disparità di genere, veicoli di messaggi sessisti, violenti o rappresentanti la mercificazione del corpo femminile”. Un divieto forte ma anche abbastanza generico e variamente interpretabile. L’interpretazione che ne ha dato Marino, col plauso della Presidente della Camera Boldrini che non è nuova a criticare l’uso stereotipato dell’immagine femminile in pubblicità, è che il comune vieterà le affissioni che utilizzino il corpo delle donne associandolo all’idea di oggetto e di commercio.
Possono non far piacere, e non solo alle donne, talune immagini pubblicitarie. Succede per tutte le pubblicità. Oliviero Toscani ne sa qualcosa. Ma anche lo Stato, con gli orridi avvertimenti imposti sui pacchetti di sigarette, ne sa qualcosa. Non sobbalziamo per polmoni marcescenti, offerti in bella vista sui pacchetti di sigarette anche a chi non fuma, ma dovremmo sobbalzare per l’immagine sessista che si fa della donna al punto da vietarla. Cosa sia un’immagine sessista, lo può dire soltanto chi può vietare. Un nudo di donna o anche una donna dietro ai fornelli che sottostà, ingenuamente soddisfatta, ai più triti cliché familiari?
Anche le idee, le mode, le espressioni, e quindi le pubblicità, si contendono gli spazi e gli apprezzamenti. Oggi, una pubblicità dove un uomo in abiti da lavoro calpesta col piede la testa di una donna-zerbino urterebbe la sensibilità dei più. E per fortuna. Negli anni Cinquanta, una famosa ditta di filati sintetici ne fece una campagna promozionale ora sulle pagine dei libri di storia della pubblicità.Lo stesso si potrebbe dire per campagne pubblicitarie che distinguevano i negri dai bianchi. Lo stesso forse si dirà di pubblicità che già oggi colgono l’uomo, e non la donna, come oggetto, e che non sembrano rientrare nel moralismo attuale. I costumi evolvono, e con essi la sensibilità delle persone.
[**Video_box_2**]Il problema è fino a che punto condizionare quell’evoluzione con l’arma del divieto. La pubblicità è una forma di espressione. Minore, dicono i giuristi, ma pur sempre espressione. Qualsiasi divieto, specie se a fini moralistici, rammenta cupi presagi di censura da cui un diritto ormai consolidato come quello di espressione sembrerebbe essersi vaccinato. Se dovessimo badare all’uso della donna e del suo corpo, dovremmo probabilmente scandalizzarci davanti ai quadri di Gauguin. Un pittore che non solo ha raffigurato il nudo esotico delle donne, ma lo ha fatto in evidente contrapposizione tra l’oggetto primitivo, ancestrale, carnale di un desiderio appagato e la raffinatezza cerebrale, algida e quindi insoddisfacente delle donne europee. Se dovessimo badare al cliché della vestale confinata entro le mura domestiche, dovremmo pure scandalizzarci di fronte alle donne dietro l’ercolaio di Alfred Broge o ai ritratti di vita nelle cucine dell’Ottocento.
Si dirà che si tratta di due espressioni differenti. La differenza, come detto, sta nella mercificazione. Questa, più che un nudo di donna o una donna ai fornelli, è il vero scandalo della nostra società. Lo sterco del demonio non è il corpo femminile, come il sacco di escrementi che attraversa simbolicamente il film di Buñuel, ma più banalmente il suo uso a fini commerciali. Ma dove finisce il commerciale e inizia l’arte non è un confine banale. Lo abbiamo forse sempre saputo, prima ancora che Andy Wahrol provocasse il mondo confondendo i due mondi. Un paio di anni fa, al Palazzo della Regione di Milano, andarono in mostra le campagne pubblicitarie di una nota marca di birra, che giocavano sul doppio senso della bionda e sulla sua disponibilità ad appagare un desiderio. Una pubblicità che è diventata arte.