Un'illustrazione della Divina Commedia di Gustave Doré

L'imperialismo esoterico di un fedele d'Amore che deviò “tra feltro e feltro”

Alessandro Giuli
C’è Dante e Dante. Troneggia mai consunto, da quasi un secolo, quello dell’accademia letteraria e della critica ufficiale impermeabili alla categoria dell’irrazionale; ma serpeggia ancora, fantasma semi-clandestino, anche un Dante “indiziario”, e cioè raffigurato a partire da tracce, lacerti, allegorie.

C’è Dante e Dante. Troneggia mai consunto, da quasi un secolo, quello dell’accademia letteraria e della critica ufficiale impermeabili alla categoria dell’irrazionale; ma serpeggia ancora, fantasma semi-clandestino, anche un Dante “indiziario”, e cioè raffigurato a partire da tracce, lacerti, allegorie, indizi appunto: è il poeta di un’epica nascosta nelle pieghe dell’esoterismo medievale e tramandata dai padri di un’ermeneutica minore troppo spesso declassati come Dan Brown avant la lettre. Si colloca in questo secondo girone, che definirei iniziatico se non frontalmente pagano, il volumetto di uno storico studioso del tradizionalismo, Sandro Consolato, “Evola e Dante. Ghibellinismo ed esoterismo” (Edizioni Arya, 96 pp, 18 euro). Nel suo sforzo ricognitivo – illuminare la figura dantesca attraverso gli occhi della metafisica occidentale, in questo caso offerti dal maggiore e più controverso filosofo-esoterista del XX secolo – Consolato è in eccellente compagnia, ma la sua, la nostra direi, è una compagnia talmente inattuale da sembrare attempata (anagraficamente lo è) secondo i canoni del momento storico.

 

Mi riferisco ad autori come Gabriele Rossetti (1783-1854), Michelangelo Caetani (1804-1882, che però l’autore non cita, come gli ricorda nella postfazione l’amico studioso Renato Del Ponte), Francesco Perez (1812-1892), Luigi Valli (1878-1931), e poi Arturo Reghini (1878-1946) e René Guénon (1886-1951). A muovere il raggio di luce dantesco scelto da Consolato c’è dunque Evola (1898-1974), noto esponente di un patriziato talmente irriducibile alla modernità e alla democrazia da ibridarsi con l’illusione di un fascismo augusteo mai disceso dall’empireo delle idee per farsi carne e storia. L’Evola che interessa Consolato è il protagonista di una personale lectura Dantis articolata su tre livelli: il puro esoterista che si libra nelle Rime e in Vita Nova, il templare-politico della Divina Commedia,  l’imperialista ghibellino del Convivio e della Monarchia. Un Dante tricipite nel quale sia Evola sia il suo esegeta individuano il tratto rosso di una coerenza interna: l’Alighieri fu affiliato a una “fraternità esoterica ghibellina”, i Fedeli d’Amore, che ebbe la doppia funzione di scuola iniziatica e cerchia politica con l’obiettivo di restaurare, in nome della superiore Provvidenza stoico-cristiana, la signoria dell’impero universale romano (tendenza Arrigo VII, omaggiato di un “gran seggio” nel Paradiso dantesco) al di sopra degli egoismi particulari e delle pretese ecclesiali. Circa la prima sfera, secondo il lignaggio evoliano, il nucleo centrale della disciplina spirituale dantesca è racchiuso nella figura di Beatrice, interpretata allegoricamente come “sapienza santa”, “dottrina segreta” e sigillo criptato della fraternità stessa; quasi principio e compimento di una “forza sovrannaturale” femminile posta come “condizione per poter ancora da vivi compiere la discesa negli inferni e realizzare tutti quegli stati interiori, di cui le tappe del viaggio dantesco sono simboli”. Come nemmeno Luigi Valli e i suoi epigoni, Evola avanza l’ipotesi che la fraternità dantesca vivesse l’esperienza dell’eros in funzione di una metanoia interiore di tipo platonico, senza scorgervi la magia sexualis adombrata molto più di recente da Guido Ceronetti – lo ricorda opportunamente Consolato – secondo il quale “per le case dei Fedeli d’Amore girava, forse, una prostituta sacra che era posseduta ritualmente, amata e venerata come l’unica fenice, la propria luce perduta”.

 

[**Video_box_2**]Quanto all’intreccio esoterico-politico e alla fabula imperiale, Evola riprende la nota metafora dantesca della “pianta dispogliata” o “vedova frasca” per suggerire che “in Dante l’Albero assume parimenti il doppio significato di Albero della Conoscenza e del Paradiso terrestre e di Albero dell’Impero”. Di qui anche i simboli dellla croce e dell’aquila, di qui “il rinnovamento della missione provvidenziale di Roma” fatalmente affidato al rex venturus avvolto nella figura del Veltro (“imperatore atteso, latente, mai morto, ritiratosi in un centro invisibile o inaccessibile”). Ma di quale Roma si parla, infine, nel cuore di Dante? Una Roma imperfetta – dunque non Roma – dice Evola, perché soltanto cristianamente pagana; la Roma di un exul inmeritus, come si disse Dante, espulso e poi riadottato dalla chiesa mondana poiché nell’orizzonte non mondano di quella stessa chiesa aveva piantato le proprie radici. Diversamente da Cecco d’Ascoli, che subì il rogo e “avversò Dante, vedendovi […] un deviazionista”.

 

Salvo l’onore ghibellino delle armi, salve le armi romane e antiborghesi rivolte contro la “gente nova dai subiti guadagni”, Evola non concede di più. Consolato è meno definitivo, ci ricorda che “Dante arrivò al punto di operare magicamente, presso la corte ghibellina dei Visconti di Milano, contro il papa Giovanni XXII, e che nella tomba del signore ghibellino principale protettore di Dante, Cangrande della Scala, allorché fu riaperta nel 1921 da un discendente dell’Alighieri, con stupore si constatò l’assenza di una croce o un qualsiasi simbolo cristiano”. Il che tuttavia non poté impedire, a seicento anni dalla sua morte (1921), che Benedetto XV rivendicasse nell’enciclica In praeclara summorum “l’intima unione di Dante con questa Cattedra di Pietro”.

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