Dante, gigante tra noi. Ma non avrebbe potuto reincarnarsi nel Novecento
Dante tra noi. E’ con questo scontato ma promettente programma nella testa che sono andato a “Libri come” per presentare un formidabile dantista come Marco Santagata, curatore per i Meridiani Mondadori delle opere di Dante, autore di una monografia critica (il Mulino), di una biografia imponente (Mondadori) e di un agile romanzo (Guanda) sul nostro titano letterario. Santagata naturalmente ne sapeva almeno cento volte più di me. Per farmi coraggio e non limitarmi a lodare l’enormità delle sue competenze, non potevo che aggrapparmi all’aneddotica personale e a qualche breve cenno sulla passione novecentesca per l’autore della “Commedia”.
Di alcune tendenze come la “poesia pura” e l’ermetismo, è stato detto che devono moltissimo a Petrarca, a Góngora e a Mallarmé, poeti selettivi e filtrati, e quasi nulla a Dante, uno dei poeti più audacemente e voracemente inclusivi che si siano mai visti.
Con tutte le sue oscillazioni fra un estremo e l’altro, il Novecento ha spesso lavorato secondo l’idea che un testo poetico deve essere concentrato e breve e non può parlare di tutto. Escluso, quindi, che in poesia si potesse raccontare, ragionare, comunicare. A queste preclusioni puristiche ha reagito una minoranza di grandi innovatori come Majakovskij, Eliot, Brecht, Williams, Neruda, Vallejo. Ma le teorizzazioni hanno piuttosto sorvolato su questo versante, mentre avanguardie e neoavanguardie hanno riempito i testi di materia verbale scelta allo scopo di ribadire all’infinito che inventare e trasgredire equivale a sabotare la lettura e a demolire la lingua d’uso.
Ezra Pound con i suoi “Cantos”, o Edoardo Sanguineti con “Triperuno”, volevano essere danteschi: ma Dante non fa che mettere in scena personaggi indimenticabili, esaltando la potenza comunicativa, teatrale, narrativa, evocativa e raziocinante della lingua, mentre ogni avanguardia si è applicata a incrementare le patologie autistiche del linguaggio poetico.
Dante fra noi? Non si poteva che cominciare dalla sua presenza scolastica. Dante fra noi, ahimè, quasi esclusivamente a scuola, quando di solito si pensa ad altro. Perciò dando inizio al dialogo con Santagata ho provato subito a dire: Dante va liberato dalla scuola, bisogna ritrovare Dante come autore da leggere e non da studiare. Bisogna leggerlo mettendo da parte le note, rassegnandosi a non capire tutto, pur di entrare nel flusso delle sue terzine a rima incatenata, con la loro energia ritmica, e nella progressione epica e drammatica del racconto.
La mia libertaria alzata di ingegno è stata però frenata da Santagata. Non solo la scuola ha bisogno di Dante, è anche Dante, ha detto Santagata, che ha bisogno della scuola, la quale ci ha offerto e continua a offrire una delle poche occasioni di lettura, un’occasione da non perdere e che lascia comunque dei ricordi per tutta la vita.
In un’edizione di “Libri come” dedicata alla scuola, come dimenticare la scuola? Avrei mai letto tre volte la “Commedia” (e alcuni canti una decina di volte) senza i miei doveri di studente e più tardi di insegnante? All’università di Roma feci l’esame di Letteratura italiana con Natalino Sapegno. Nella saletta in penombra c’era lui solo, malinconico come sempre: quel giorno gli assistenti scioperavano, era il giugno o luglio del 1966. Sapegno mi aprì davanti il poema sacro, nascondendo poco dignitosamente con le mani tutte le indicazioni che sulla pagina potevano aiutarmi a capire in quale cantica e canto eravamo. Dovevo: prima leggere, poi indovinare e raccontare la situazione, poi spiegare verso per verso, infine commentare criticamente. Per fortuna, non so come, mi andò bene. Ne sono ancora fiero.
[**Video_box_2**]E perché a diciassette anni lessi i “Quartetti” di Eliot? Perché sfogliando una rivista patinata nella sala d’aspetto di un medico lessi che Eliot era “il Dante della nostra epoca”. Dante mi portò a Eliot e Eliot mi riportò, più fresco di modernità, a Dante. Dunque Dante era ancora tra noi, se il più influente, colto e filosofico poeta del Novecento, un poeta americano (incredibile!) aveva preso Dante a modello.
Eliot non era stato il solo a scegliere Dante, preferendolo perfino a Shakespeare, di cui in un famoso saggio aveva stroncato l’“Amleto”. Anche se con esiti più modesti e meno noti, Dante ha sedotto mezzo Novecento. Ricordo che Elsa Morante lo leggeva nei suoi ultimi anni. Cesare Garboli riprese a commentarlo fino all’ultimo dei suoi giorni. Pasolini, seguendo Gianfranco Contini, il più dantesco dei nostri critici, scelse per la sua poesia il “plurilinguismo” e lo “sperimentalismo” di Dante. Giorgio Caproni scelse un’espressione del decimo canto dell’“Inferno” come titolo di uno dei suoi libri migliori: “Il muro della terra”…
Un vero Dante novecentesco comunque non c’è stato e non poteva esserci. L’unità e coerenza architettonica della cultura medievale è da tempo fuori uso. Anche se Baudelaire, l’inventore della poesia moderna, oscillava tra inferni urbani infestati di demoni e “paradisi artificiali”. Per ottenere un Dante novecentesco si dovrebbe immaginare un improbabile Arcimboldi nella cui figura convivano Proust e Kraus, Kafka e Saba, Musil e Simone Weil, Mann, Céline, Montale, Gramsci…
Questo non vuol dire che Dante fosse solo un gigante letterario. Era anche un uomo debole, tormentato e perseguitato dalla sorte. E’ soprattutto così che ce lo racconta Santagata nei suoi libri. Un giovane colpito da crisi epilettiche, un politico ingenuo e sconfitto, condannato a morte dai suoi stessi concittadini, vissuto per quasi vent’anni in esilio, povertà e disonore. Ha scritto un maestoso poema per ristabilire in terzine, sulla pagina, quella giustizia che nel mondo gli era mancata.