Volevo leggere Anna Frank
Cara Kitty, mi sono presa l’impegno di vivere una vita diversa dalle altre ragazze, e, un domani, diversa dalle normali casalinghe. Questo è un inizio interessante ed è la ragione, la sola ragione per la quale nei momenti più pericolosi devo ridere della buffa situazione. Sono giovane e ho ancora molte virtù nascoste, sono giovane e forte e vivo questa grande avventura”. Il 3 maggio 1944 Anna Frank stava per compiere quindici anni: da quasi due si nascondeva, con i genitori, la sorella e un’altra famiglia ebrea, in una soffitta di Amsterdam che chiamava l’Alloggio segreto (“ho l’impressione di trovarmi in una strana pensione in un luogo di villeggiatura”), e aveva riempito la parete nuda sopra il suo letto di cartoline e ritagli di stelle del cinema. Voleva scrivere un libro che avesse proprio quel titolo, l’Alloggio segreto, e stava ricopiando e sistemando il diario, in attesa di uscire al sole: voleva andare a studiare un anno a Parigi e uno a Londra, essere corteggiata, incontrare persone interessanti, innamorarsi, diventare una giornalista e poi una scrittrice, vivere altre grandi avventure da donna libera. “Non mi accontenterò di un futuro modesto”, scriveva, e non c’è niente di modesto nella sua scrittura, nei pensieri, nella capacità di essere avvincente raccontando la lotta per le patate dentro la soffitta, o descrivendo la sua vagina dall’alto, con precisione e stupore (“Tutto qui, eppure è così importante!”). A tredici anni era una scrittrice, sapeva far ridere, sapeva riflettere, essere forte e solitaria, e sapeva scrivere l’indicibile in un modo preciso e fiero: un’adolescente che non ha intenzione di volere bene a sua madre solo perché è sua madre, e che riflette sul matrimonio dei suoi genitori (le parti eliminate dal padre durante la prima pubblicazione del Diario nel 1947) individuandone i punti deboli e il disamore: “Dentro di lei pian piano si è distrutta. Lei lo ama come nessun altro ed è duro non vedere corrisposto un amore così”.
Ho letto per la prima volta il ‘Diario di Anna Frank’ da bambina, in quarta o quinta elementare, ho preteso di averlo con ostinazione: strattonavo la mano di mio padre che era venuto a prendermi a scuola e gli ripetevo: per favore compramelo. Lui non voleva, sei ancora piccola dài, ma la maestra in classe aveva parlato dell’Olocausto e io pensavo solo a quella bambina nascosta in soffitta con il pigiama che le era diventato piccolo, a lei che la sera quando c’era la luna aveva il coraggio di aprire la finestra e guardare le stelle, a lei che mangiava gli spinaci mezzi crudi anche se le facevano schifo e faceva battute su Braccio di Ferro.
Avere quel libro fra le mani, con la faccia carina di Anna in copertina e la foto di un frammento della sua calligrafia è stato molto più di immaginare Robinson Crusoe, Piccole Donne o più avanti il Giovane Holden. E’ stato un passo avanti nel mondo, il primo passo verso la vita adulta ma con le parole di una non adulta, una ragazzina di tredici e poi quattordci e quindici anni anni chiusa fuori dal mondo, che più di ogni altra cosa desiderava tornarci dentro e conquistarlo, e viveva quei mesi, quel buio, quella paura e a volte disperazione come una grande avventura. Anche per una bambina che non sapeva niente era così chiaro che quella era una cosa vera, un libro totalmente sincero (non è uno scrittore che si mette nei panni di una quindicenne, è una bambina che comincia a raccontare le sue giornate e finisce per intuire, da sé, che quel diario sta diventando qualcosa di grande, che è perfino più importante di lei, della sua famiglia e di quello che accadrà): un racconto che scoppia a ogni pagina di vita, di desiderio e di speranza (“Se Dio mi farà vivere, otterrò di più di quanto la mamma abbia mai ottenuto, non sarò mai insignificante, lavorerò nel mondo e per per gli uomini!”). Saltavo le considerazioni politiche, e del racconto sull’eccitazione con cui si mettevano intorno alla radio ad ascoltare di Churchill e Eisenhower assorbivo soltanto l’eccitazione. Poiché il diario termina in un giorno di agosto in cui non succede niente (ma è una pagina meravigliosa e appassionata in cui Anna descrive la sua anima divisa in due parti e lo fa da grande scrittrice), avevo, a nove o dieci anni, il diritto di pensare che forse quella bambina intelligentissima si era salvata, e anche il ragazzo che viveva con loro, e a cui lei aveva dato il primo bacio, e per il quale aveva scritto una lettera terribile al padre, dicendogli: io non ho più bisogno di voi. “Non è che io sia riuscita così da un giorno all’altro a sistemare le cose in modo da vivere senza una madre e senza l’aiuto di nessuno; mi è costato molta fatica e molte lacrime diventare così indipendente come sono adesso. Puoi anche ridere e non credermi, non me ne importa niente, so di essere una persona indipendente e non mi sento affatto di rendere conto a voi. Delle mie azioni devo essere responsabile solo davanti a me stessa”.
Era la cosa più sfacciata e ribelle che avessi mai letto, ed era ardente, l’aveva scritta una ragazzina olandese nascosta in un abbaino che sognava di tornare a scuola, sentiva l’enormità di quello che stava vivendo e confidava a Kitty (il nome che aveva dato al suo diario, l’amica immaginaria, l’escamotage letterario di una ragazza vincente) sogni ambiziosi e un ottimismo straziante e allo stesso tempo esaltante: “Mi è proprio impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria e della confusione. Vedo che il mondo lentamente si trasforma in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina, che ucciderà anche noi, sono partecipe del dolore di milioni di persone, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto tornerà a volgersi al bene, che anche questa durezza spietata finirà, e che nel mondo torneranno tranquillità e pace”.
Leggere queste parole, adesso, è di nuovo sconvolgente, non solo per il valore assoluto e per l’orrore, di lì a pochi mesi, ad Auschwitz e a Bergen Belsen, Anna e sua sorella Margot, il tifo e l’inizio e la fine di tutto, i diari nascosti in un cassetto in attesa che qualcuno tornasse (solo il padre sopravvisse, fra le otto persone nascoste in quella soffitta) e li richiedesse indietro, ma perché erano le parole di una ragazza imperfetta, vivace, ambiziosa, geniale, vivissima, “pazza per i libri e per la lettura”, ancora più ardente e viva da quando la vita libera le era stata negata, e quella libertà la esercitava nel diario, sui fogli, scrivendo e pensando e immaginandosi un futuro bellissimo (“una scrittrice famosa”) e colmo di frivolezze (“Penso sempre a bei vestiti e persone interessanti, voglio vedere qualcosa e conoscere il mondo, questo te l’ho già detto, e anche avere un po’ di soldi non può far male!”). E’ questo a essere tanto terribile, ha scritto Philip Roth, sempre ossessionato da Anna Frank (ne Lo scrittore fantasma immagina e costruisce una Anne Frank sopravvissuta all’Olocausto), il fatto che lei fosse, nel senso più semplice e migliore del termine, viva.
[**Video_box_2**]Il diario di Anna Frank è diventato velocemente il simbolo di tutto l’orrore e l’innocenza del Novecento, ma il diario di Anna Frank è molto di più: è la storia di una vita, di quella vita in particolare, è lo sguardo e il calore di una ragazza nata nel 1929 che racconta la sua curiosità, la febbre di conquista, i desideri sessuali, la convinzione di diventare meglio di sua madre, meglio perfino di suo padre che la notte nella soffitta le leggeva Dickens in inglese. Nel volume appena pubblicato da Einaudi che raccoglie tutto quello che Anna Frank ha scritto, le cartoline di compleanno alla nonna, i racconti di fantasia e quelli ispirati all’Alloggio segreto, oltre alle due versioni del diario e alle fotografie di famiglia (Anne Frank, tutti gli scritti, edizione italiana a cura di Frediano Sessi), l’orrore è solo nostro, la morte è solo nostra, lì dentro è tutto spumeggiante, gioioso perfino, e profondo. Come un albero che si riempie di fiori, come la scoperta del mondo in un giorno di primavera. C’è la convinzione fortissima di un lieto fine, anzi di un nuovo inizio, e di grandi possibilità, unita alla comprensione di quello che sta accadendo (“Non credo che la guerra sia causata solo dagli uomini grandi, dai governanti e dai capitalisti. No, il piccolo uomo la fa altrettanto volentieri”) e c’è una capacità di osservazione straordinaria, il senso della storia unito all’energia e al talento della giovinezza (“considero questa clandestinità un’esperienza pericolosa, romantica e interessante”). E la nostalgia del passato e della leggerezza: “Ti ricordi? Sono ore così belle quelle in cui posso parlare di scuola, insegnanti, avventure e ragazzi. Quando ci circondava ancora la vita normale tutto era stupendo. Quell’unico anno di liceo fu per me qualcosa di meraviglioso. Gli insegnanti, tutto ciò che ha imparato, gli scherzi, il prestigio, gli innamoramenti e gli adoratori”. Al primo anno del liceo ebraico, Anna Frank aveva molti corteggiatori che cercavano di catturare la sua immagine con un pezzo di specchio, e l’aveva raccontato al suo diario fin dalle prime righe, era quello il mondo in cima ai suoi pensieri, e aveva fatto l’elenco dei suoi compagni di classe, perché era la sua vita di bambina in mezzo ad altri bambini ebrei. Bambini veri, persone nate nella seconda decade del Novecento (“Chi ci ha imposto questo? Chi ha fatto sì che noi ebrei fossimo un’eccezione fra tutti i popoli?”).
A tredici anni Anna Frank aveva le idee molto chiare e non arrossiva mai,“Rob Cohen è stato innamorato di me, ma adesso non lo sopporto più. E’ un ragazzetto falso, bugiardo, frignone, svitato e noioso che si dà un sacco d’arie. Miep Lobatto è senza dubbio la più bella della classe. Ha un viso carino, ma a scuola è piuttosto stupida. Mi sa che sarà bocciata, ma ovviamente non glielo dico. Saffle Springer è terribilmente meschino; si dice che sia stato con una ragazza. Però a me è simpatico, perché è divertente”. Nei due anni successivi, dal suo tavolino in soffitta al quale aveva il permesso di sedersi tutti i pomeriggi dalle due e mezzo alle quattro (e più tardi combatté una guerra con un ospite dell’alloggio segreto per avere diritto ad altre tre ore alla settimana, “Signor Pfeiffer, io lavoro seriamente, perciò la prego di essere tanto cortese da ripensare ancora alla mia domanda”, e vinse), intitolò un racconto: “Ti ricordi?”. “Ti ricordi? Come Sam Salomon continuava a seguirmi in bicicletta e voleva offrirmi il braccio”. Non era trascorso molto tempo, ma nella formazione di Anna Frank quello era già il passato che non ritorna, un mondo lontanissimo e spensierato in cui lei era ancora una bambina vivacissima e affettuosa, ma non era ancora diventata la vera Anna, non aveva vissuto ancora “la grande avventura”. Adesso aveva imparato a vivere con la pressione dell’isolamento e della paura, aveva pianto la notte, aveva riso sottovoce di giorno immobile sul letto per non farsi sentire da quelli del piano di sotto, aveva usato il gabinetto solo agli orari consentiti, e aveva conquistato l’amore di un ragazzo per poi capire che non era abbastanza per lei, che lui non sapeva ancora reggersi da solo sulle sue gambe mentre lei sì, aveva lottato, dentro l’altra lotta per la sopravvivenza, per l’affermazione di sé. Contro quelli che, pur amandola, o semplicemente sopportandola, non la prendevano sul serio. “Sono stata definita cacciatrice di uomini, civetta, sapientona e lettrice di romanzetti”. L’evoluzione, la crescita di Anna Frank anche come scrittrice è talmente veloce e importante che nessun romanzo di formazione potrà mai volare alla sua altezza. E’ un’opera universale per l’incubo reale che racconta e incarna, ma lo è ancora di più, anche se è indicibile, perché è personale, perché è la reazione e la guerra di un’adolescente dentro la guerra del mondo fuori, ed è una guerra per se stessa e per il futuro, per iltrionfo dell’immodestia. “Non sopporto, quando si occupano tanto di me, allora sì che divento prima sfacciata, poi triste e alla fine torno a rovesciare il cuore, giro in fuori la parte brutta e in dentro la buona e cerco un modo per diventare come vorrei tanto essere e come potrei essere se… nel mondo non ci fosse nessun altro”. Sono le ultime frasi del diario, tre giorni prima della fine. Le pagine bianche rimaste sui quaderni hanno raccontato tutto il resto.