L'indispensabile maledizione di un amore senile, la punizione della carne. Emil e Friedgard
Quando Cioran incontrò a Parigi Friedgard Thoma, nella primavera del 1981, lei indossava un abito nero “non troppo corto” e aveva deciso di piacergli. Gli aveva scritto una lettera in tedesco, pochi mesi prima, da lettrice entusiasta e diffidente: gli disse che, a differenza del resto del mondo, non lo trovava affatto distruttivo. Lui le rispose in fretta e lei ne fu felice, lusingata, eccitata, e allegò alla nuova lettera una sua foto (“al mio solito modo, frivolo ma piuttosto vanitoso”) per mostrargli chi era: una giovane donna attraente, non soltanto una insegnante di Filosofia e Letteratura folgorata dalla lettura de “L’inconveniente di essere nato”. Lui aveva settantadue anni, lei trentasei, lei voleva incontrare “una delle più grandi menti di Parigi” e forse aveva anche progettato di farlo innamorare, di portare scompiglio dentro quello scetticismo, di giocare con la seduzione non solo intellettuale verso l’uomo che aveva per tutta la vita riso dell’amore e dell’insensatezza della vita. Parlavano di suicidio, di solitudine, di ozio disperato, e intanto ridevano, bevevano vino, lui la prendeva sottobraccio, passeggiavano per Parigi di notte, cucinavano insieme. Fu una tale tempesta che Cioran arrivò a scriverle, quella stessa estate: “Lei è diventata il centro della mia vita, la dea di uno che non crede in nulla, la più grande felicità e sventura che mi sia capitata. (…) Dopo che per lunghi anni ho parlato con sarcasmo di tali… cose come l’amore (e simili) dovrei essere punito in qualche modo, e lo sono, ma non importa. Il fallimento è il punto capitale del mio programma”. Friedgard ce l’aveva fatta: con la vitalità della giovinezza, con le gambe lunghe e i vestiti leggeri era entrata nella vita di un uomo che considerava un dio, ne aveva ottenuto la capitolazione amorosa, possedeva perfino le prove scritte di quel corteggiamento disperato che aveva deciso di rifiutare. Diventando “l’indispensabile maledizione” di Cioran, era infine diventata qualcuno. Friedgard Thoma ha raccontato questa storia d’amore (senza amore fisico, i baci solo sulle mani) in un libro intitolato “Per nulla al mondo, un amore di Cioran” (pubblicato in Italia da L’orecchio di Van Gogh qualche anno fa), in cui ha raccolto le lettere, ha infilato fiera le foto di loro due ai giardini del Luxembourg, il tavolo di Cioran nella mansarda a Parigi, i bigliettini che lui le mandava, e una foto triste di lui che le prende la mano, negli ultimi anni. Lui si aggrappa a lei come ci si aggrappa alla vita che sfugge, lei gli sorride.
La prima lettera che Cioran scrisse dopo quel primo incontro a Parigi, la domenica di Pasqua, era già esplicita: “Ho compreso in maniera chiara di sentirmi legato sensualmente a Lei solo dopo averle confessato al telefono che avrei voluto sprofondare per sempre la mia testa sotto la sua gonna. Come possono essere letali certe cose” e anche “In genere non provo alcuna attrazione sessuale per le donne per cui provo un’affinità intellettuale. Parlerei volentieri del Lenz con lei a letto”. Lei civettava, gli scriveva che sentiva la sua mancanza, gli proponeva di incontrarsi a Colonia, dove viveva e lavorava, lo supplicava di non telefonarle troppo raramente (“il telefono è l’unico modo per attenuare la ‘catastrofe naturale’ in cui sono coinvolta insieme a lei”). Parlavano della solitudine di lui (che pure viveva con sua moglie, Simone Boué), dell’abitudine a bere tisane la sera, dell’affitto troppo caro, di Ionesco e di quella “perversa attrazione” che Cioran provava per il corpo di lei, della gelosia che gli causava saperla a letto con un altro uomo, quando le telefonava la mattina presto. Lei voleva tutto: le parole, l’amore, la devozione, la presenza, l’ironia, i libri, gli aforismi e le passeggiate, voleva essere la donna che lui amava intensamente, ma non voleva che le si avvicinasse troppo. Nel mese di maggio Cioran andò “improvvisamente”, scrive Friedgard, a Colonia da lei. Ma non era un viaggio improvvisato, era la risposta a una lunga serie di inviti, di richieste e anche di dichiarazioni d’amore senz’altro sincero (“La prego di considerarmi la persona che l’ama, qualunque cosa s’intenda; quella che ha bisogno di più tempo (ci siamo visti solo un pomeriggio e due sere), più lenta e ponderata quando si tratta di infrangere certe soglie”). Andò a prenderlo alla stazione vestita di rosso e di nero, dopo avere ascoltato il quintetto d’archi in Do maggiore di Schubert, e lo ospitò nel suo appartamento. Notò che, nonostante predicasse da sempre l’insonnia (“L’unica forma di eroismo compatibile con il letto”), Cioran dormì piuttosto bene. Lui cercò di starle il più vicino possibile, pianse sulla riva del lago, e infine le scrisse, dal treno che lo riportava a Parigi: “Ho recitato troppo a lungo la commedia della saggezza”.
[**Video_box_2**]Era una disfatta, il tumulto del cuore, perfino un’autoridicolizzazione a cui Friedgard rispondeva compassionevole e adorante ma insieme sprezzante: “Dunque, caro: Lei mi ha trascinato nell’immediatezza inequivocabile di una relazione fisica, mentre io cercavo l’erotica ambiguità della relazione ‘intellettuale’”. Cioran non era più scettico, leggero, distaccato, non era più Cioran: era ossessionato da una donna che non voleva lasciarsi toccare da lui. “Sento che tra noi qualcosa si è rotto. Resteremo certamente amici, ma l’ambiguità, il torbido, spariranno irrimediabilmente. Poiché il nostro secondo incontro ha sortito un esito simile, non posso più farmi illusioni su quelli futuri”. Friedgard gli aveva detto, nella sostanza, e con gentili artifici: tu sei vecchio e io sono giovane. Non posso amarti come tu mi ami. E lui aveva perduto il distacco, lo scetticismo, la sua disperazione adesso era diversa, era la disperazione per un rifiuto. “La fortuna di esser cinico mi ha abbandonato, da che l’ho conosciuta”. Durante il loro terzo incontro, a Parigi, sospeso tra ossessione e leggerezza, le scrisse su un tovagliolo la frase di Colette, “Pour rien au monde”, per niente al mondo avrebbe rinunciato a lei. E così è stato fino alla fine, tra gelosia, nostalgia, slanci e altre lacrime, e con lei che gli scriveva: “Oh, se non ci fossero le cosce, ma solo le mani”.