“Macbeth porta sfiga”, e altri 29 falsi luoghi comuni su Shakespeare
Appena subentrato a George Bernard Shaw come critico teatrale della Saturday Review, Max Beerbohm scrisse un pezzo sulla prima rappresentazione del “Macbeth”: l’attore che doveva interpretare Lady Macbeth si era ammalato all’improvviso ed era stato sostituito in extremis da Shakespeare stesso. A corredo dell’aneddoto, Beerbohm aggiunse una lunga citazione in cui il diarista secentesco Samuel Pepys elencava le sventure causate dalla tragedia scozzese. Beerbohm scriveva nel 1898 e da allora sorse la certezza che “Macbeth” portasse iella; solo nel 2001 uno studioso si accorse che l’aneddoto era inventato e che la citazione da Pepys non si trovava in nessun luogo dei suoi sterminati diari. Nel frattempo però “Macbeth” aveva iniziato a portare sfortuna davvero: fra le sue vittime più illustri, Peter O’Toole. In una puntata dei Simpson, inoltre, il solo nominare la tragedia incenerisce all’istante un personaggio.
E’ questo uno dei “30 grandi miti su Shakespeare”, libro molto intelligente di due professoresse di Oxford, Laurie Maguire e Emma Smith, che in Italia è stato importato da O Barra O ma avrebbe forse meritato un editore in grado di impaginarlo meglio. In Inghilterra lo ha pubblicato John Wiley, scelta significativa per due motivi. Anzitutto Wiley è l’editore associato a Blackwell, libreria per accademici e intellettuali al centro di Oxford; poi perché è lo stesso editore del volume cui le autrici si sono espressamente rifatte, “50 Great Myths of Popular Psychology”. Il ragionamento è cristallino: la psicologia si è popolarizzata in miti che perdono lo statuto epistemologico di verità o falsità per trascendere in stereotipi universalmente diffusi e dibattuti. Allo stesso modo Shakespeare è un prodotto della mente su cui anche i dilettanti credono di saperla lunga grazie ad assodati luoghi comuni: odiava sua moglie, diede ad Amleto il nome di suo figlio, era un plagiario, non esisteva, non cancellava mai una riga (“Avrebbe dovuto cancellarne un migliaio”, ribatté Ben Jonson).
Alle autrici oxoniane non preme confutare questi miti bensì ristabilire la preminenza della ragionevole certezza accademica sul complottismo dilettantesco, soprattutto nel più rognoso dei sospetti: quello per cui Shakespeare non era Shakespeare bensì Francis Bacon, o Elisabetta I, o Edward de Vere. A cavallo fra Ottocento e Novecento fiorirono saggi di amatori che giustificavano fantasiosamente questa teoria che accattivò insospettabili come Freud, Henry James, Orson Welles.
Le autrici evidenziano un duplice cortocircuito riguardo all’accettazione dell’idea che non ci siano sufficienti prove dell’esistenza di Shakespeare. Primo, i fautori ritengono che Shakespeare non avrebbe potuto scrivere le proprie opere in quanto privo di preparazione specialistica ma dimenticano che, in quanto privi di preparazione specialistica, secondo lo stesso criterio loro non potrebbero sostenere tale teoria. Secondo, come ha sostenuto da Harvard il professor Stephen Greenblatt, se uno basa la propria fama di saggista sull’insufficienza di prove dell’esistenza di Shakespeare, allora per fare carriera accademica basta dichiarare insufficienti le prove di qualsiasi evento storico a cominciare dall’Olocausto?
[**Video_box_2**]Il punto è che Shakespeare travalica i confini usuali della cultura. Un capitolo che manca a questo libro poteva ad esempio essere dedicato ai titoli di opere altrui tratti da suoi versi: “Infinite Jest”, “L’inverno del nostro scontento”, “L’urlo e il furore”, fino all’eccesso della “Recherche” di Proust shakespearizzata a sua insaputa nella traduzione inglese che prende di peso il titolo dal sonetto 30, “Remembrance of Things Past”. Ciò non toglie che esista uno Shakespeare oggettivo, solido antidoto al proliferare di miti popolari; basta leggerlo davvero.
Se volete scoprire il grado di dilettantismo dei vostri amici più presuntuosi, chiedete loro di trovare la didascalia in cui Shakespeare dà ad Amleto l’indicazione di recitare il celebre monologo tenendo in mano il teschio di Yorick. Non esiste.