Goffredo Fofi

Elogio del gran fare (e disfare) di Fofi, socio-moralista di minoranza

Alfonso Berardinelli
Qualcuno può pensare che sia un intellettuale politicizzato. In realtà della politica gli importa poco. La intuisce, la scruta da lontano e se ne tiene a distanza. La “disobbedienza civile” contro la scemenza emotiva.

Qualcuno può pensare che Goffedo Fofi sia un intellettuale politicizzato. In realtà della politica gli importa poco. La intuisce, la scruta da lontano e se ne tiene a distanza. Il suo fiuto gli dice che “entrare in politica”, avvicinarsi ai partiti, entrare nelle istituzioni è pericoloso, spinge alla  malafede e comunque non fa per lui.

 

Nel remotissimo Sessantotto e raramente più tardi, in qualche breve periodo di crisi e di potenziale rinnovamento, si è pensato di poter “ridefinire la politica”, di cambiarne lo spazio e le regole. La speranza è durata poco. Fofi ne ha preso atto ormai da decenni, eppure insiste sempre sul “fare”, anche se il suo fare consiste soprattutto nel fondare e dirigere riviste, cercare collaboratori, commissionare articoli, recensire una quantità impressionante di romanzi, film, spettacoli, mostre e fenomeni culturali di ogni genere. Fra una politica che mette in scena una retorica dell’agire, agendo ben poco e male, e una cultura chiusa nei suoi circoli viziosi e nelle sue sterili cerchie universitarie o mondane, si tratta di agire facendo altro e facendolo altrove.

 

La politica di chi la fa all’interno dei partiti e dello stato ha due difetti macroscopici: si specializza in competizioni elettorali e in procedure burocratiche (sempre più onnipresenti) ignorando l’insieme della cultura (fra élite e massa) e i comportamenti socialmente diffusi. Quella di Fofi è una prospettiva socio-moralistica, una pedagogia orientata sulle forme della socializzazione culturale. Prese in se stesse e separate l’una dall’altra, le tre figure del militante politico, dell’intellettuale schierato e del critico della cultura, non gli bastano. La sua personale soluzione del problema è praticarle un po’ tutte, simultaneamente o alternativamente secondo i casi, correggendo l’una con l’altra. Per rimandare o alludere di continuo alla possibilità di una “politica ridefinita” (formula sessantottesca di Carlo Donolo) c’è bisogno di questo.

 

E’ chiaro che con un tale programma, più si fa e più ci si sente in colpa. Per combattere i suoi rimorsi, Goffredo non sta  mai fermo. Corre e cerca dovunque nella società italiana per trovare il meglio o il meno peggio. Riesce a mettere a dura prova perfino le sue eccezionali energie.

 

Incombe sempre e comunque il problema di che cosa fare. Migliorare le leggi? Migliorare gli individui? Migliorare le diverse socialità ambientali? Secondo le proprie capacità, c’è lavoro per tutti: perfino per i poeti, il cui primo compito è tenere in salute la lingua, anche quella con cui si parla a se stessi. Molto spesso la sua rivista, Lo straniero, Fofi la apre con un editoriale che consiste nella citazione di qualche dimenticata poesia del Novecento ridiventata improvvisamente attuale.

 

Ma al fondo di tutto, come dice il titolo del suo saggio appena uscito da Nottetempo (91 pp., 7 euro), c’è un “Elogio della disobbedienza civile”. La vera dimensione del discorso politico di Fofi è questa. E’ qui che convergono i suoi autori più cari: Thoreau e Gandhi, la Arendt e Günther Anders, Aldo Capitini e Guido Calogero, Bobbio, don Milani, Ivan Illich. E’ una tradizione che permette di misurare le meschinità e le ottusità di tanta sinistra italiana, che negli ultimi vent’anni è riuscita a dare il peggio di sé nonostante l’esibizione vacua di rigorismi immaginari. Tutti convinti, scrive Fofi, “di essere di sinistra solo perché un filo più a sinistra di Berlusconi, o perché si sentivano tanto ribelli leggendo la Repubblica o il manifesto, godendosi le estati romane e la Milano dei miglioristi, ripetendo le battute dell’ultimo Benigni o dell’ultimo Moretti, credendo di essere stati la ‘meglio gioventù’ e di ritrovarsi, senza pena, magnifici quarantenni o cinquantenni”.

 

[**Video_box_2**]A ispirare l’instancabile dinamismo di Fofi ci sono anzitutto l’insoddisfazione personale e la sua percezione di come le generazioni partono ribelli e poi si mettono in poltrona, rifiutano i padri e poi diventano peggio di loro. Per capirsi, basta una citazione di Günther Anders, che riassume in due battute l’involuzione inerziale di tanti movimenti: “Non appena si trovano insieme in centomila, automaticamente ne scaturisce una divertente festa popolare. Allora ci sono salsicce, Chernobyl con salsicce. E poi vengono le chitarre. E là dove quelle cominciano, là comincia la scemenza emotiva”.

 

Quando si è in tanti, quando si diventa maggioranza, si peggiora. E’ per questo che Fofi si è, non rassegnato, ma dedicato da un quarto di secolo alle minoranze. Non importa quanti siamo, non importa il potere, il successo, l’influenza. La cosa che conta è capire quando “bisogna smettere di obbedire”, non solo alle leggi ingiuste ma alle abitudini e convinzioni di colleghi, famigliari e amici.

Di più su questi argomenti: