Ex-machina, il "dietro sotto la superfice" che non brilla per l'originalità

Mariarosa Mancuso
Sinuoso titanio in forma umana e occhietti rossi. Ultron, figlio degenere della cibernetica e dell’intelligenza artificiale che nel film di Joss Whedon fa passare un brutto momento al suo creatore Tony Stark e all’accozzaglia di supereroi caratterialmente bacati che vanno sotto il nome di “The Avengers”, non è propriamente un capolavoro.

Sinuoso titanio in forma umana e occhietti rossi. Ultron, figlio degenere della cibernetica e dell’intelligenza artificiale che nel film di Joss Whedon fa passare un brutto momento al suo creatore Tony Stark e all’accozzaglia di supereroi caratterialmente bacati che vanno sotto il nome di “The Avengers”, non è propriamente un capolavoro di originalità. Millenni sono passati da quando Pigmalione scolpì la statua di Galatea per poi innamorarsene, siamo ancora lì.

 

Succede anche in “Ex-machina”, debutto alla regia del romanziere Alex Garland: ex disegnatore di fumetti, lo conosciamo per il romanzo “The Beach”, da cui Danny Boyle ricavò nel 2000 il film con Leonardo DiCaprio, e per le sceneggiature di “28 giorni dopo” e “28 settimane dopo”. Nel film, il 30 luglio nelle sale italiane, il robot è femmina e sexy. Un bell’avanzamento da “Her”, dove Joaquin Phoenix doveva accontentarsi della voce di Scarlett Johansonn, seducente ma incorporea, e pure fedifraga: oltre a lui seduceva una schiera di altri abbonati al servizio.

 

La signorina si chiama Ava, ha la faccia e il corpo di Alicia Vikander, entrambi ritoccati al computer (era Kitty in “Anna Karenina” di Joe Wright). Pigmalioni, quindi a rischio di innamoramento, il miliardario Oscar Isaac e il superprogrammatore Domhnall Gleeson. Prima mossa: sottoporre la creatura al test di Alan Turing: domande e risposte, con un’umana a far da cartina di tornasole. Se non è possibile distinguere le risposte date degli umani dalle risposte date dalla macchina (Turing lavorava con i suoi calcolatori, antenati del computer, quando erano ancora scatoloni per niente antropomorfi), l’intelligenza artificiale ha vinto.

 

Andrew O’Hehir – su Salon – approfitta dell’uscita americana del film per una chiacchierata con Alex Garland. Coglie l’occasione per sottoporre all’intervistato un confuso parallelo tra Ava e la Lolita di Vladimir Nabokov. Lo trascina in un dibattito sulle femmine fantascientifiche che lascia il regista perplesso. Il poveretto cerca di schermirsi, ma il giornalista insiste, Garland mette avanti la propria  ignoranza in generale, e la propria estraneità ai romanzi dello scrittore russo in particolare. Poi cede, almeno un pochino: “Saranno idee che mi sono arrivate di sponda, leggendo libri di altri scrittori”, ammette (e si capisce che sta dando una scorsa veloce ai titoli di casa: fantascienza, fantascienza e ancora fantascienza).

 

[**Video_box_2**]Il punto di O’Hehir è che “certe storie sembrano raccontare una cosa, e invece ne raccontano un’altra”. Idea per cui non c’era bisogno di scomodare Nabokov, che anzi era contrarissimo ai disseppellitori di significati nascosti. Per questo odiava Freud, per questo faceva critica disegnando il manicotto di Anna Karenina e la pianta dell’appartamento di Gregor Samsa. Ma qui ad Alex Garland scatta l’orgoglio del regista incapito, e già accusato di misoginia: “Sì, il dietro sotto la superficie, questo volevo fare”. Esistesse un test di Turing per smascherare i cattivi registi, sarebbe spacciato.

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