Sulla paura del preside
I fatti sono noti: proteste di insegnati e studenti in tutta Italia; uno sciopero compattamente convocato da tutte le possibili sigle sindacali e associative della scuola per il 5 maggio, con conseguente rinvio delle prove Invalsi alle elementari, fatte slittare di un giorno tra le proteste dei Cobas; la titolare del dicastero, la glottologa Stefania Giannini, che abbandona la Festa dell’Unità di Bologna e chiama “squadristi” i precari e gli studenti che le hanno impedito di tenere la sua conferenza (ed è rimproverata per questo da mezzo Pd, da Orfini fino a Fassina: un altro miracolo negativo di conciliazione degli opposti operato dalla “Buona Scuola”).
Di fronte a tutto questo, il premier Matteo Renzi, già alle prese con la grana suprema dell’Italicum, ha scelto toni concilianti: “Il nostro disegno di legge può essere migliorato ancora. Siamo aperti e pronti all’ascolto – ha scritto in una lettera ai segretari dei circoli Pd – ma un punto deve essere chiaro: la scelta dell’autonomia è decisiva. Significa che la scuola non deve essere nelle mani delle circolari ministeriali e dei sindacati, ma dei professori, delle famiglie, degli studenti”. Le avvisaglie, se non di resipiscenza, almeno di perplessità da parte di Renzi sul disegno di legge, c’erano state, secondo alcune indiscrezioni, già lo scorso 21 aprile. Nel corso di un seminario al Nazareno, il presidente del Consiglio avrebbe detto ai deputati dem di temere gli effetti della “Buona scuola” sulle amministrative di fine maggio, con perdita di voti fino a “un punto percentuale”, a giudicare dalla vastità delle proteste che coinvolgono uno dei tradizionali bacini del partito, gli insegnanti.
Ma che cosa c’è, di così cattivo, nella “Buona scuola”? Quello che in molti le rimproverano (forse troppi, per pensare che sia colpa del solito tic conservatore di un mondo fossilizzato e timoroso di perdere chissà quali “privilegi”) è di essere un’operazione verticistica, sorda proprio alle ragioni dei professori, delle famiglie e degli studenti evocati da Renzi. Nella legge in discussione c’è qualcosa di ineludibile, vale a dire l’assunzione di decine di migliaia di precari (centodiecimila, per cominciare, mentre più o meno altrettanti rivendicano a loro volta titoli per l’inquadramento, ma nemmeno il ministero sa con esattezza quanti sono) che va realizzata entro metà giugno, per ottemperare a quanto disposto da una sentenza della Corte di giustizia europea del 26 novembre scorso, con la quale l’Italia è stata condannata per abuso di contratti a tempo determinato per più di 36 mesi. “La sentenza non ci obbliga ad assumere ma a risarcire un danno”, ha puntualizzato lunedì su Facebook la deputata del Pd Maria Coscia, relatrice del ddl “Buona scuola” in commissione Cultura. E ha aggiunto: “Cerco di muovermi in questa enorme palude. Non è semplice”.
Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini (foto LaPresse)
Le va dato atto, sul punto in questione, che è davvero così, e che sull’esecutivo attuale ricadono antiche e mai sanate colpe. Il problema dei precari della scuola, dei concorsi inesistenti (il sottosegretario Davide Faraone ha annunciato alla Stampa che dal 2016 torneranno, ma chissà) e quindi dell’impossibilità per i giovani di entrare in ruolo fino a che le immense liste di “aventi diritto” quaranta-cinquantenni non saranno smaltite, si è ingigantito a dismisura in anni nei quali pure interventi legislativi di ogni tipo (e con ogni governo) sono stati attuati, lasciando sempre alla deriva quell’aspetto. Ma anche per il contesto in cui sono state pronunciate (le assunzioni non le decide propriamente il governo, ci obbliga la Corte europea) non funzionano più di tanto le recriminazioni di Renzi alla notizia dello sciopero del 5 maggio: “Mi fa ridere, se non fosse una cosa triste – aveva detto il premier – il fatto che si proponga di scioperare contro un governo che sta assumendo centomila insegnanti. Il più grande investimento fatto da un governo nella scuola italiana”.
L’altro punto dolente della “Buona scuola”, quello del quale Renzi sembrava più convinto e che invece è stato almeno in parte ridimensionato dopo il passaggio di lunedì in commissione parlamentare, è quello del preside “allenatore” o “sindaco”, per usare proprio le definizioni date del premier in occasioni diverse: l’uomo solo al comando, che amministra i premi per gli insegnanti meritevoli, che può sceglierli per chiamata diretta fuori graduatorie, come accade all’Università per le personalità di “chiara fama”, e che può perfino licenziarli, se ritiene che meritino di essere mandati a casa.
Vasto programma, certamente improntato alle migliori intenzioni e a un’idea lodevole di meritocrazia. Peccato che però ci si sia dimenticati di spiegare – il ddl originario non lo fa, dice solo che la materia sarà demandata a un regolamento successivo – quali sono i criteri di controllo di quello che diventerebbe un dominus assoluto e del quale si teorizza la specchiata, incrollabile, indiscutibile (e disumana) imparzialità. Lo storico della scienza Giorgio Israel, firma del Foglio e già presidente della Commissione ministeriale per il rinnovamento della formazione dei docenti con l’ex ministro Gelmini, spiega che “non è possibile pensare che in un’istituzione sovvenzionata dai contribuenti, come è la scuola, il preside non debba rispondere a qualcuno. Autonomia non è far quello che ti pare, e quello che non vale in tutta la pubblica amministrazione a maggior ragione non può e non deve valere nella scuola, che ne fa parte. Se il preside diventa colui che nella più totale discrezionalità ha il potere di assumere, di decidere chi fa carriera, di erogare le gratifiche che il ddl ora prevede, chi è che sceglierà e valuterà il preside? E chi garantirà quelli che gli stanno antipatici perché magari non ne condividono fino in fondo le idee? Oppure decidiamo che questi devono adeguarsi, se non vogliono grane e se vogliono far parte degli eletti? Conosco e tutti conosciamo presidi che si creano le loro camarille e penalizzano, già ora, chi non la pensa come loro. Non immaginavo che nella riforma annunciata sarebbe diventato sistema”. Israel ricorda che la resistenza al cambiamento nella scuola magari c’è, ma questo “non ha impedito che in quarant’anni fosse sommersa da decreti, circolari, provvedimenti parziali e tappabuchi: potremmo riempirne pagine. Interventi che hanno devastato la scuola, che l’hanno asservita a forme di controllo burocratico sempre più cervellotiche, con la moltiplicazione di scartoffie, moduli e contromoduli da riempire: cose inutili e quindi dannose, perché succhiano tempo e risorse. Poi è chiaro che ci sono i renitenti al cambiamento e ci sono gli incapaci, tra milioni di insegnanti sarebbe molto strano se non fosse così. Ma nulla è pernicioso come certe pseudoriforme che vogliono trasformare la scuola in un emporio dove l’ultima cosa importante sono le materie. E la riforma chiamata ‘Buona scuola’ a mio avviso aggraverà ulteriormente questa tendenza. Per esempio prevede che l’insegnante sarà valutato tanto più favorevolmente quanto più sarà capace di allestire attività extra orario scolastico. Mi aspetto tanti bei seminari pomeridiani sul cambiamento climatico o sul gender, mentre magari il docente che sceglierà di seguire un corso d’aggiornamento universitario di storia o di filosofia sarà considerato un perditempo. E mi aspetto che il preside solo al comando premi gli ideatori di seminari inutili e non il secondo. La mia sensazione – conclude Israel – è che questo pasticcio della ‘Buona scuola’ nasca dalla necessità di risolvere il problema del precariato. Alla sanatoria obbligatoria sono stati aggiunti in corsa provvedimenti raccogliticci e poco ponderati. E anche sul tema del precariato, la soluzione trovata è solo provvisoria, come è già evidente. La soluzione che avevamo ipotizzato nella commissione che si occupava del problema all’epoca della Gelmini, prevedeva che ogni anno si dovessero immettere in ruolo un numero pari di giovani e di persone prese dalle graduatorie dei precari. La Gelmini scelse invece di riaprire e rimpolpare le liste, e il successivo ministro, Profumo, ha messo su tutto una pietra tombale. Il risultato che è oggi nemmeno al ministero sanno quanti sono davvero i precari che da domani, anche dopo l’immissione dei centodiecimila, accamperanno diritti”.
Al primo dei problemi paventati da Israel – il potere senza contrappesi del preside – dovrebbe almeno in parte rispondere la modifica approvata lunedì notte in commissione Cultura della Camera. L’uomo solo al comando sembra che non sarà più così solo: il preside potrà proporre promozioni e premi, ma “nel rispetto delle competenze degli organi collegiali”. Inoltre, si è chiarito che l’organizzazione del piano triennale sarà frutto della collaborazione con il consiglio d’istituto e il collegio dei docenti.
La questione dei premi non è di poco conto, se non altro da un punto di vista simbolico. Una delle novità introdotte dalla “Buona scuola” riguarda infatti una gratifica in denaro che nelle intenzioni dovrebbe interessare il 66 per cento dei docenti. Non dovrà essere a pioggia, insomma, ma essere – giustamente – legata al merito (l’importo si dovrebbe aggirare attorno ai sessanta euro mensili). Fabrizio Reberschegg, docente di Diritto in un Istituto tecnico veneziano e componente del direttivo nazionale dell’associazione sindacale Gilda, spiega che si tratta in tutto di “circa duecento milioni, la cui gestione sarà affidata ai capi di istituto. A parte i problemi già elencati sulla discrezionalità con cui saranno erogati, si tratta di gratifiche che non entreranno stabilmente nello stipendio e non saranno usate nemmeno per costruire una vera carriera degli insegnanti, siano o meno meritevoli. Non sarebbe stato più logico usare in questo senso quei duecento milioni, così come il bonus di cinquecento euro l’anno a insegnante per l’acquisto di strumenti di aggiornamento professionale, per un totale di 380 milioni? Quanto al problema di chi controlla il preside, in attesa del misterioso ‘regolamento successivo’, rimane il vecchio Ufficio scolastico regionale del ministero, che a memoria d’uomo non ha mai rimosso nessuno per nessun motivo, a parte reati penali conclamati. Anche in questo campo, vige la regola che tutti i capi di istituto sono ottimi e tutti hanno raggiunto gli obiettivi prefissati, d’ufficio”. Non vale per loro quello che deve valere per gli insegnanti, insomma.
Paola Mastrocola, insegnante di italiano e scrittrice (il suo ultimo romanzo è “L’esercito delle cose inutili”, Guanda), delle condizioni della scuola e dell’insegnamento si è occupata in un libro del 2012, “Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare”, nel quale critica, tra molto altro, il mito dell’impostazione “aziendale” della scuola (siamo davvero lontani dal preside manager e uomo solo al comando, insomma). Al Foglio, dice che “se sento parlare di riforma penserei a un vero ‘cambio di verso’. Che invece non vedo, così come non vedo la possibilità di rivoluzioni digitali dove mancano i soldi per la carta igienica e dove crollano i solai. Quanto ai maggiori poteri del preside, mi va anche bene, a patto di decidere i criteri. In base a che cosa si fa, già oggi, la valutazione di un professore o di un istituto? Da valutare dovrebbe esserci una sola cosa: vedere come si insegna in classe, quanta passione ci si mette. Invece valgono più le ore inutili di attività extra orario, la partecipazione a commissioni e ad attività burocratiche di ogni tipo, l’invenzione di progetti collaterali: tutto, fuorché l’unica cosa importante. Ha vinto la logica delle ‘griglie’, dei test, della valutazioni quantitative. Più si producono scartoffie e più si è disponibili ad attività che con l’insegnamento non hanno a che fare direttamente, più la valutazione sarà alta. Buona scuola, per me, è: via la burocrazia, torniamo a far lezione e chiediamo ai ragazzi di studiare”.
Non lontano da queste posizioni è Giulio Ferroni, docente universitario e critico letterario. Nel 1997 aveva scritto “La scuola sospesa. Istruzione, cultura e illusioni della riforma” (Einaudi) e sta per tornare in libreria (il 6 maggio) con un altro saggio di critica del sistema italiano dell’istruzione, per come è e anche per come la “Buona scuola” renziana vorrebbe cambiarlo: “E dire che, sulla carta e almeno nelle elaborazioni iniziali, quel progetto aveva un suo piglio disinvolto, di efficienza. Ma non si affrontano i nodi veri”. Uno, materialissimo, “è quello dell’edilizia, l’altro è la rifondazione di una certa serietà degli studi, uscendo dai miti pedagogici dell’alleggerimento e dell’informatizzazione totale. Non è quella la strada giusta, e purtroppo non vedo soluzioni nella ‘Buona scuola’. Il mondo è sempre più difficile da affrontare, e non possiamo educare all’insegna della pedagogia della facilità, con una scuola e un’università vissuti come un perpetuo social network. E invece vedo rafforzarsi il carattere sempre più vago e indefinito dell’insegnamento, il mito dell’inclusione e della facilità, l’idea che il sapere possa essere acchiappato qua e là, seguendo un’immagine presunta della comunicazione contemporanea che allontana dalla realtà. Sento parlare addirittura di abolizione della classe. Il problema della ‘Buona scuola’, al di là di qualche aspetto apprezzabile ma limitato, è che non si collega a nessun modello culturale. Non parte da una vera idea di che cosa dovrebbe essere la cultura per questo paese e per le nuove generazioni. Il modello Gentile non tiene più, siamo d’accordo. Ma l’alternativa non può essere la casualità o l’improvvisazione”.
Eppure, nell’uniforme e conforme coro anti “Buona scuola”, qualche voce di apprezzamento (pur con la richiesta di correttivi) va registrata. Un gruppo di dirigenti scolastici ha lanciato l’hashtag #iononsciopero, rifiuta la qualifica di sceriffi al di sopra della legge per l’intera categoria, propone la linea di affiancamento al preside del collegio dei docenti e del consiglio di istituto nella funzione deliberativa e nega che la “Buona scuola” sia antidemocratica. Una voce isolata, in un coro negativo dove ancora una volta – purtroppo – molte giuste critiche di merito rischiano si essere soffocate dal solito sottofondo alla Camusso e alla Domenico Pantaleo (Cgil scuola): Quelli che “comunque non si cambia senza di noi”. Quelli che “senza di noi non si può fare nulla”.