Il problema di Nanni Moretti è che è diventato troppo e troppo poco autobiografico
Davanti a “Mia madre” mi sono distratto. Perfino quando sfilava la Lazzarini, che ricorda la tragica genitrice di “La messa è finita”. Il fatto è che per la prima volta ho capito perché i film morettiani, dal tracotante “Caro diario” in poi, m’ispirano il disagio indefinibile che si prova di fronte a uno spettacolo né davvero fallito né riuscito. Anziché le immagini che gridavano ogni secondo “siamo sobrie!”, e anziché la levigatezza da nouvelle vague truffautiana un tono sotto, vedevo squadernata sullo schermo l’intera parabola del regista. Ecco la mia tesi elementare. Moretti è un intollerante e un violento, e i suoi film originali sono quelli in cui un personaggio (Apicella, Giulio) si accolla questa natura e la trasforma in uno strumento conoscitivo, proiettandola sulla famiglia e la società italiana. Così ha fatto il suo alter ego travestendosi da Ragazzo tardomarxista, Regista, Killer del consumismo affettivo, Prete antiestetismo, Politico berlingueriano. Nel cineasta giovane, l’esibizionismo e il perfezionismo inibitorio, il talento farsesco e la patologia dell’uomo d’ordine erano tenuti insieme da una tetragona volontà d’imporsi.
Poi, raggiunto lo scopo, Apicella è sparito ed è rimasto Moretti: che ora, dopo averci ficcato bene in testa un tipo con storia e tic inconfondibili, può semplicemente “essere” ed “esprimersi”. Ma senza quell’attrito, il suo cinema diventa sublimazione (lo “splendido quarantenne”) o tentativo di affrontare con modestia artigiana i temi prima incorporati nell’alter ego: il dolore della perdita, il cozzo tra l’intimità e il grottesco costume pubblico, la Storia misurata sulla propria biologia. Il satirico, bilioso carattere di Moretti-Apicella è sfumato così in una “simpatica” idiosincrasia da girotondo, in un’insistenza di principio sulle cose “buone e giuste”, in un’Eataly di politica e affetti: senza la stizza della maschera, rimane un letterario perbenismo. Del resto, la metamorfosi è stata liberatoria. Basta vedere le pose che hanno rimpiazzato i raptus savonaroliani, i gesti e i toni misurati di chi sa che ogni sua mossa è già storicizzata, “citata”, allusiva a un prima. Da vent’anni, insomma, Apicella è assente e presupposto. Il cineasta ha vinto la battaglia, e parla da saggio. Anche “Mia madre” emana quest’aria. In bocca alla Buy – un Moretti senza barba – certe stizze tipiche del querulo, nasale Nanni suonano finte; ma d’altra parte, il regista si è a sua volta “buyzzato”. E se lei sembra fuori posto, il meta-Nanni che la accudisce sorridente e fatalista è a suo perfetto agio. La sua vittoria sta anche qui: adesso può posare ad attore stanco, quasi avesse dietro di sé una vita d’interprete a tuttotondo, mentre al contrario ha costruito una carriera sui suoi limiti legnosi, eludendoli e valorizzandoli con la disinvoltura delle gag o la loro stridula esagerazione. Ma il prezzo è chiaro: le allusioni al passato, e il cinema presente, si fanno pallidi o sforzati. Come la Buy che dà lezioni di brecht-morettismo e litiga a freddo con Turturro.
[**Video_box_2**]Come i guitti di contorno, che una volta incarnavano qualche furia psichica e ora sono solo macchiette, o come le scadenti repliche delle sequenze oniriche in cui le comparse restavano sospese davanti ad Apicella: la Buy in conferenza stampa, sul set che blatera di Tacito… Ogni tanto, questo Moretti guadagna nei dettagli e gira in forme più “laiche”, meno stilizzate: ma siccome non gli appartengono, steccare è un attimo. Perciò dei suoi ultimi vent’anni si ricordano brevi momenti di spleen, di magone delicatamente trattenuto o d’inquieto presagio: nella “Stanza del figlio”, ad esempio, la Morante al mercato mentre il ragazzo muore, e il viaggio finale. Però si ricorda di più il volontarismo, che in “Mia madre” elide ogni differenza tra le scene del film e quelle del set buyesco: la fatica del ciak si sente ovunque. Ma è la retorica sequenza sugli alunni di Ada a mostrare qual è il punto: Moretti è diventato al tempo stesso troppo e troppo poco autobiografico. Senza la sua maschera più vera del vero esibisce una vita priva di pregnanza metaforica, e dei plot tutti esteriori. Le “cose buone e giuste” sono cose vuote. Niente è peggio che voler essere maturi quando non si ha la vocazione. In questi casi, o si è così bravi da trattare omeopaticamente il proprio io puerile, o bisogna accettare che l’immaturità è tutto. Ossia che è l’unico stato fecondo, se si vuole “fare il cinema” o qualsiasi altra arte.